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la lingua che non siamo

La parola «inquietudine», l’aggettivo «inquieto», li ho scoperti da ragazzo, quando mi accorsi che più dei teoremi mi piacevano le poesie, quando cominciai a intuire che qualcosa dentro di me non si lasciava bastare quello che c’era fuori di me; quando confusamente capii che non avrei mai trovato quello che altrettanto confusamente cercavo.

La parola «identità» l’ho scoperta molti anni dopo, anche se ancora per certi versi ero un ragazzo. Ma fu l’assedio di Sarajevo, negli anni Novanta, a interrogarmi sull’identità, la mia e quella altrui, me lo ricordo perfettamente: perché in nome dell’identità si combatteva una guerra a pochi chilometri da casa mia, si uccidevano le persone, si sparava sui mercati, perché la Jugoslavia era stata il luogo delle mie estati infantili, per tanti anni, perché l’Istria, Pola, un pezzo di quella ex Jugoslavia erano il luogo da cui veniva la mia famiglia materna, gli avi a cui assomigliavo, i bisnonni da cui avevo preso la statura. Un pezzo della mia identità.

Per queste ragioni, mi ha subito colpito il titolo di un libro che ho letto in questi giorni e che appunto si intitola «L’identità inquieta». E per queste ragioni penso che questo libro, così apparentemente marginale, sia portatore di una riflessione che vale la pena di fare in questi tempi: perché mentre ci racconta di come si andassero formando, durante gli anni del socialismo jugoslavo, le identità dei singoli stati che di lì a poco si sarebbero formati (e combattuti), ci spiega del materiale, spesso immaginario, di cui anche le nostre identità sono composte, la nostra idea di ciò che siamo, le radici a cui crediamo di appartenere. Il libro è presentato qui dal suo stesso autore, Luka Bogdanić. E penso che niente valga a introdurlo come queste sue parole:

Una delle principali tesi di questo lavoro … è la convinzione antropologico-filosofica, che gli uomini non sono nati portatori di una sola identità (nazionale o altro), ma acquistano coscienza di identità varie, attraverso i processi di socializzazione. Non è una regola né un fatto naturale che gli uomini si sentano portatori di una sola identità, anzi l’esperienza conferma piuttosto il contrario. L’identità è un processo alla stregua delle relazioni da cui nasce. Questo vale per ogni tipo d’identità, sociale, linguistica, di genere e ideologica, come anche per quella nazionale, e se la storia dei serbi e dei croati (nonché dei Balcani in generale), insegna qualcosa, è proprio questo.

Ma c’è anche un altro bellissimo libro che mi ha fatto riflettere in queste settimane sugli stessi temi. Lo ha scritto Lorenzo Tomasin, che è valentissimo filologo, si intitola Europa romanza, e racconta sette storie che si incrociano tra fine del Medioevo e inizio della modernità: sette storie di mercanti e della lingua che parlavano, vicende in cui le parole si mescolano, si formano e deformano, raccontandoci di una identità linguistica, la nostra, ben più composita e labirintica di quella che è consolante immaginare (Dante «padre della lingua» eccetera). Del libro di Tomasin dice cose molto precise e acute Nicola Gardini, qui:

Di dettaglio in dettaglio, di luogo in luogo, di individuo in individuo, si delinea una società transnazionale in cui la pratica della mescidanza è cospicua e dimostra di riguardare spazi della comunicazione assai più vasti che non indichino i soli reperti esaminati. Vocaboli, modi di dire, calchi, maccaronismi passano da un volgare all’altro e si confondono con il volgare prevalente creando uno spazio composito, che sembra ignorare il concetto stesso di identità linguistica, sia a livello nazionale sia a livello personale. La normatività lessicale e grammaticale, come Tomasin ben sottolinea, è un portato della letteratura. Nasce dalle teorie dei colti e dalle conseguenti campagne di normalizzazione, come il successo dei principi bembiani, in Italia, è lì a provare. La scrittura dei mercanti, al contrario, si rifiuta istintivamente di costringere le lingue entro confini geo-politici.

Se davvero siamo la lingua che parliamo (come io in effetti credo), siamo pertanto una cosa ben più complicata e assai meno monolitica di ciò che ogni tanto ci conviene credere, per comodità e ignoranza.

E forse non casualmente, proprio stamattina, ho letto il breve racconto di un film che ancora non ho visto. E in qualche maniera mi è sembrato che parlasse di nuovo di questo argomento, di questa identità inquieta, che abbiamo ma che non abbiamo, che cerchiamo di avere, che ci costruiamo diversa ogni giorno, che è una finzione bella ma terribile, perché la usiamo spesso per escludere, per uccidere, per bombardare e assediare le città.

Ho letto sul web di questo documentario di Fredo Valla che parla di eretici del Trecento, di Catari e Bogumili, ho pensato che era un’altra bella riflessione sul tema. La trovate qui. E queste sono le parole che chiudono l’articolo:

«Ci sono periodi in cui la storia va lenta, altri cui accelera, ma devi essere sempre pronto con le tue idee nel cassetto. Non so se la storia tornerà a essere veloce a breve, non me lo chiedo più, ma io continuo a coltivare i miei sogni e le idee di gioventù. Ho solo imparato che il mondo è sfaccettato e le identità non sono poi così nette».

Davide Profumo
Davide Profumo
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