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la letteratura, se esiste

La letteratura è un non essere. Non è. E se è, c’è solo quando non c’è. Non è nelle intenzioni dell’autore, perché lo scrittore che scrive volendo fare letteratura è un furfante o un illuso. Non è nelle pretese del pubblico, che giudica il già giudicato e premia solo ciò che gli lasciano premiare. Non è nei premi che la premiano. Non è nei critici che la criticano. Non è nei docenti che la insegnano. Non è nei trattati che la trattano. Non è tra gli editori che la editano. Non è nei sogni che se la sognano.
Essa sfugge e manca. Nel tempo presente. Perché, anche supponendo che essa possa esistere, la letteratura dovrebbe celarsi, eludersi, naturalizzarsi nell’assenza, così come i tempi del vendibile, del commerciale, del fruibile e dell’immediato impongono. Capita perciò che si dimentichi cosa sia questo non essere e che si spacci ciò che non è come un possibile essere del non essere.
Ma il non essere sa comunque manifestarsi in quello che non c’è. E c’è dunque letteratura nel passato: ci fu. Probabilmente ci sarà, ma non per chi ora è e per ciò che ora vorrebbe essere.

 

Se vi dicessi che c’è una ragione precisa per cui queste frasi mi piacciono, vi mentirei: non c’è una ragione precisa, forse nemmeno una ragione confusa. Però alcune delle parole che le compongono mi attraggono, mi colpiscono, trovano in me qualcosa (non so cosa) che le lascia risuonare. Ed è forse (ma lo dico davvero confusamente) questa idea della scrittura come «mancanza» che mi piace e mi attira: qualcosa che vogliamo afferrare sempre ma che è inafferrabile per sua stessa natura, e però non ci stanchiamo di provare. La stessa sensazione mi ha dato questa lunga recensione (che credo – lo ammetto – di non avere nemmeno capito del tutto). Però a un certo punto dice questa cosa:

 

Platone aveva ragione a cacciare i poeti dalla sua repubblica ideale: i poeti sono davvero dei fingitori. Ma non nel senso che intenzionalmente ingannino i propri ascoltatori o lettori, bensì perché nessuna poesia concreta raggiungerà mai la poesia vera e propria, che è certo un impulso primigenio dell’uomo ma anche un sogno mai realizzato: questa o quella poesia è e sempre sarà uno scacco, una copia imperfetta. Per questa ragione noi non possiamo che odiare la poesia – questa o quella poesia, perché essa è l’emblema del nostro fallimento a dire la verità (sulla nostra condizione umana, sull’universo, su tutto quello di cui la poesia si occupa da millenni).

 

E questa cosa mi commuove, all’improvviso, come se questa cosa fosse alle origini di una strada che mi ha portato fin qui. E questa cosa mi fa venire in mente quest’altra cosa che in qualche modo è lontanissima e vicinissima, e ne parla Franco Arminio parlando di se stesso e di un gioco che faceva da bambino, da solo (lo faceva anche con altri, ma non è quello che mi interessa: è la dimensione autistica che mi pare esemplare di un tentativo ininterrotto che abbia a che fare ancora adesso con il tentativo della letteratura, se esiste):

 

Giocavo a pallone. Era una cosa che facevano quasi tutti i bambini. La differenza che giocavo insieme agli altri e giocavo anche da solo. Anche questo accadeva a qualche altro bambino, ma il mio era un giocare a oltranza: quando il tempo era brutto giocavo in casa mia e la palla diventa un tappo di bottiglia. Giocavo tra la porta d’ingresso e quella della cucina, nella stanza dell’osteria dove mangiavano i clienti più intimi. Ce n’era uno a cui dava particolarmente fastidio la mia ossessione. Diceva che lo avevo fatto esaurire. Quando si impiccò nella sua casa un po’ mi venne il pensiero di aver contribuito alla sua scelta.

 

Lo disse assai meglio di me un regista molto tempo fa: era una slitta di legno in quel caso, ma sempre di essenza del raccontare la nostra infelicità, incompiutezza, nostalgica imperfezione, sempre di quello si trattava. La letteratura, se esiste, prova a fare questo, mi dico oggi: è un pallone che fugge tra le case, un inganno, un non essere, potrebbe benissimo trattarsi di un elastico.

Davide Profumo
Davide Profumo
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