non lo so
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15 Marzo 2019Ho letto, ieri mattina, in una classe di studenti che mi sono stati temporaneamente affidati dal ministero competente, un capitolo dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. È un capitolo bello e terribile, in cui c’è un padre (ricco, autorevole, autoritario, importante) che obbliga la figlia a farsi monaca. Ma non la obbliga, in realtà: in realtà è lei stessa che si obbliga da sola, è lei che non trova il coraggio di ribellarsi, che non ha gli strumenti per farlo, è lei medesima che non capisce il contesto che le sta intorno e finisce per farsi monaca contro la sua volontà. E quindi il padre la obbliga. Ed è quindi un padre cattivo. E gli studenti che mi sono stati affidati tirano qualche piccolo sospiro di sollievo, perché io (spoiler) ho già detto loro che sarà proprio questa giovane donna, costretta a farsi monaca, a tradire Lucia, la protagonista, a consegnarla nelle mani nel carnefice, a venderla per poco prezzo al suo stupratore… E il sospiro di sollievo che tirano gli studenti è: non è cattiva lei, è il padre che è cattivo.
Ma poi succede una cosa (nei grandi romanzi succedono cose belle e terribili e impreviste: e I promessi sposi ha il difetto di esserlo, un grande romanzo, grande letteratura). Succede che quando la figlia dice il sì definitivo, quello che per sempre la condanna alla prigione del monastero, il padre corre felice ad abbracciarla, quasi commosso; e Manzoni dice che quella commozione è sincera, che il suo abbraccio è sincero… E poi scrive una delle sue frasi più famose: «così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano». E mi piacerebbe portevi dire che questo genera un momento di silente meditazione nella classe, di partecipato stupore: ma purtroppo non è così. Si alzano le mani, in realtà, e tutti hanno solo una domanda da fare: «Prof, cosa vuol dire “guazzabuglio”?». Non lo sanno, io glielo spiego, la magia (se mai c’è stata) è passata, la scuola funziona così.
Ma resta un’idea, fondamentale e sorprendente (per loro, naturalmente: io ho cinquant’anni, leggo il romanzo da vent’anni davanti a decine di adolescenti sempre diversi e sempre uguali, mi sorprendo soltanto del fatto che le parole siano ancora lì, immobili, al loro posto, sempre le stesse parole di Manzoni: a volte ho paura, a volte speranza, di aprire il romanzo e di trovarlo vuoto…). L’idea che invece resta è che nemmeno il padre sia davvero cattivo: neanche lui. E che forse la cattiveria possa essere più complessa di quello che pensavamo, che forse ci sia qualcosa che non ci hanno detto, sui mostri, sui nazisti, sugli inquisitori, sui torturatori, sui padri spietati e sugli stupratori. Che sono come noi, forse. O meglio: che noi avremmo potuto essere loro, come il padre di quella ragazza, come la ragazza che ha venduto Lucia ai suoi carnefici, come uno dei suoi sghignazzanti carnefici, che forse possiamo esserlo ancora, domani, dopodomani, stasera. Che forse (un po’) lo siamo.
E adesso mi posso finalmente scusare per la lunga introduzione scolastica e consenarvi il mio link letterario di oggi. Che è un’intervista, in realtà, a uno scrittore spagnolo tra quelli che amo di più e che leggo sempre più volentieri (mi ostino a considerare il suo romanzo I soldati di Salamina un vero capolavoro, almeno nelle ultime 40 pagine). Lo scrittore è Javier Cercas e l’intervista la trovate qui. E a un certo punto leggerete che Cercas dice questa cosa:
C’è un racconto di Borges, il più grande scrittore nella mia lingua dopo Cervantes, in cui c’è un uomo che ha una memoria incredibile, ma è completamente stupido. Non può ragionare perché ragionare vuol dire dimenticare delle cose. Viviamo in un’epoca strana in cui la memoria è stata sacralizzata e questo è molto pericoloso. Non c’è niente che sia sacro, nemmeno Dio. La memoria non è sacra, deve essere sottoposta alla critica perché chi ricorda si può sbagliare. Le testimonianze sono essenziali per capire il passato, ma devono essere sottoposte alla critica, come tutto. Chi ricorda può anche mentire come faceva il protagonista di L’impostore, un uomo che diceva di esser stato nei campi di concentramento. Era diventato una rockstar della memoria storica. Perché tutto il mondo gli aveva creduto? Perché nessuno si è posto delle domande? Primo perché lui raccontava quello che la gente voleva ascoltare, raccontava una versione edulcorata della storia e le persone, soprattutto quando si tratta del passato più terribile, preferiscono non sapere la verità, preferiscono una versione digeribile, eroica e tranquillizzante della realtà.
E poi anche che arriva fino a dire quest’altra cosa qui, con piglio deciso e assoluto:
Mi sembra che Adorno dicesse che è più importante conoscere i carnefici che le vittime. Con le vittime si deve stare, ma dobbiamo capire i carnefici perché è l’unico modo per non ripetere gli stessi errori. Se non si capisce perché la gente è stata affascinata dal fascismo così come oggi è attratta da quello che definirei nazionalpopulismo … se non si capisce perché il fascismo è stato affascinante non si può attaccare quell’ideologia. Non basta dire Hitler era un mostro. Non era un extraterrestre. No, era un uomo, ma un uomo terribile. Se non si capisce perché ha affascinato non solo la Germania ma la metà del mondo, Hitler sarà di nuovo presente, una versione nuova di Hitler. L’unico modo per evitare che questo si ripeta è avere un genio, un Dostoevskij, uno Shakespeare, un Cervantes che scriva di questo, che si chieda perché il fascismo è stato affascinante. Questo è quello che fa la grande letteratura…
Ecco, appunto, la «grande letteratura» (ne ha parlato anche Massimo Mantellini sul suo blog in questi giorni; ma secondo me è stato ottimista sulle percentuali). Ogni tanto incontriamo la «grande letteratura»; quando la incontriamo sappiamo anche riconoscerla, quando la incontriamo sappiamo anche riconoscerci. È la letteratura che sa raccontarci il guazzabuglio che siamo, che non siamo in grado di leggere da soli, che abbiamo il dovere di imparare a leggere. Oggi lo ha detto Javier Cercas, due secoli fa lo diceva Manzoni, altri verranno a dircelo con voce chiara e coraggiosa. Speriamo di poter avere orecchie attente. Speriamo che sia ancora qualcuno che ci obbliga a leggerla. Speriamo che le pagine e le parole restino lì, dove sono sempre state, dove ogni anno le ritrovo, per il mio sconforto e la mia impalpabile consolazione.