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la città che un tempo fondammo

Mi pare importante, e in minima parte forse anche utile, ripartire da dove ero rimasto, poco più di un mese fa: da Enea, l’eroe troiano che, per volere del destino, molti secoli fa, giunse profugo sulle spiagge dell’Italia, dopo essere stato sbattuto per terra e per mare a causa dell’ira tenace di Giunone crudele e dopo infinite sofferenze sopportate in guerra fondò la città eccetera, lo sapete tutti.

 

Riparto da qui, perché uno dei post più belli che ho letto mentre cercavo di pensare a tutt’altro (senza troppo riuscirci) lo ha scritto Daniele Ventre e parla proprio di lui, di Enea, eroe perplesso e malinconico; e ci racconta da quanto lontano venga la costruzione di questo personaggio a cui facciamo risalire «la città», cioè Roma, cioè noi stessi e la nostra stessa identità, e lo fa con sintetica precisione e accuratezza, arrivando a scrivere così:

 

Ma di per sé, l’Enea di Virgilio è un eroe sradicato, respinto (Aen. I, 389, Europa atque Asia pulsus), in cerca di nuove terre a cui offre pace e ne riceve guerra. Guerra che fra l’altro gli viene da un tale Turno, un Tursnus, un Τυρσανός, italico per modo di dire e in realtà etrusco, tirreno, che come tutti gli etruschi, viene in parte dall’Anatolia… Sta di fatto che senza questa natura di straniero sradicato, anche negli affetti (ha perso le uniche donne che per lui contassero, regine immense e semidivine come Creusa e Didone, per sposare una scialba principessa votata a essere semplice merce di scambio politico), la poesia dell’Eneide non sussisterebbe: l’Eneide non sarebbe più un poema epico patrimonio della letteratura mondiale, ma solo il piccolo manifesto di propaganda di una piccola fazione aggressiva e nazionalistica, senza futuro né prospettive…

 

E non sarà quindi inutile ricordare che fu proprio dalla bellissima e infelicissima Didone che Enea ricevete il primo ascolto ai suoi racconti nostalgici; e che gran parte del viaggio dell’eroe è raccontato dalla sua stessa voce alla donna fenicia (anche lei esule) di cui si innamorerà e che sarà costretto ad abbandonare; e non sarà nemmeno privo di utilità ricordare che è sulla costa libica che i due si incontrano e che è proprio a quella costa che noi guardiamo oggi per capire chi siamo, per capire cos’è diventata la città che un tempo fondammo e soprattutto per capire cosa vogliamo diventare, nei prossimi anni. E lo dico con un leggero brivido di paura, lo confesso. E della Libia e del nostro rapporto con quelle coste scrive cose interessanti, oggi sul web, Antonio Morone. Vale la pena di leggerle, secondo me:

 

Le persone riportate in Libia o che semplicemente in Libia vengono intercettate perché ritenute in procinto di attraversare irregolarmente il Mediterraneo finiscono per essere rinchiuse in strutture dove sono private della loro libertà e detenuti in via amministrativa, cioè senza che vi sia una qualsiasi autorità giudiziaria che abbia accertato un reato. Il cosiddetto status di clandestinità viene ormai correntemente associato a un reato che però in realtà non esiste e infatti la detenzione amministrativa è una pratica che fa a pugni con lo Stato di diritto. In Libia si può anche finire più di una volta in queste carceri per migranti perché spesso si paga per uscire e non essere deportati fuori dal paese, ma aver pagato la prima volta non mette al riparo da nuove catture, detenzioni e ricatti. Il ciclo delle politiche di contenimento si sovrappone così a un ciclo di sfruttamento dei migranti.

 

E poi, per non lasciarci schiacciare dal peso delle scelte che dobbiamo in questi mesi fare (oppure perché ci siano parole che ci possano guidare in quelle scelte, le parole degli scrittori che abbiamo amato e non vogliamo dimenticare), ecco un ultimo consiglio di lettura, un po’ più marginale: riguarda la figura di Paolo Volponi e di altri grandi intellettuali (Giudici, Ottieri, Fortini…) che come lui lavorarono alla Olivetti, in una stagione del capitalismo italiano talmente lontana che non sembra nemmeno italiana, nemmeno capitalismo. È un racconto nostalgico e stupito, malinconico come le parole che Enea diceva di Troia guardando Didone negli occhi, lo ha scritto Giovanni Bitetto e mi sembra bellissimo anche solo pensare che ci sia stata, una volta, un’Italia così:

 

L’intento di Olivetti è operare su due fronti: da una parte curare l’immagine esterna della sua azienda, intrattenendo stretti rapporti con la stampa e sperimentando linguaggi pubblicitari innovativi; dall’altra creare un clima di coesione all’interno del personale, così che la vita in fabbrica non sia subordinata solo alla macchina. Vuole dare modo ai suoi dipendenti di arricchirsi con stimoli umanistici, e per questo è interessato ad assumere una serie di figure dal profilo intellettuale, che sappiano pensare in maniera trasversale. Se Giudici e Fortini ottemperano alla prima funzione, ponendosi di fatto come prototipi dei moderni creativi, Volponi e il collega Ottiero Ottieri, assunto quegli stessi anni, si occupano della seconda, più delicata, mansione.

Davide Profumo
Davide Profumo
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