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Isidoro di Siviglia (570-630 d.C.)

Isidoro di Siviglia (570-­630 d.C.), medico, vescovo e santo, costituisce una figura di spicco nel panorama culturale dei cosiddetti Secoli bui. Visse nel regno visigoto di Spagna, una realtà politica che era riuscita a sopravvivere alla disgregazione dell’Impero Romano d’Occidente, conclusasi nel 476 d.C. con la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, ad opera del generale di origine barbara Odoacre.

I Visigoti provenivano dalle pianure oltre il Danubio e si erano stanziati in Spagna all’inizio del V secolo. Il regno visigo­to presentava un’esperienza d’integrazione riuscita tra barbari e romani, con alcuni momenti sociali significativi, come la soppressione del divieto di matrimoni misti tra le due etnie, la con­versione completa al cattolicesimo dei Visigoti, che abbandona­rono l’eresia ariana, la creazione di un diritto comune, che per­mise di non utilizzare più contemporaneamente le leggi roma­ne per la popolazione di lingua latina e il diritto germanico per quella barbarica.

Il processo d’integrazione tra le due componenti del tessuto sociale del regno progredì per molti decenni senza ostacoli. Lentamente, si formò una classe dirigente di origine mista, che trovò naturalmente nel clero la sua voce più autorevole. Isidoro proveniva da una famiglia di antica nobiltà e successe al fratel­lo Leandro nella responsabilità della diocesi di Siviglia intorno al 600 d.C.

L’opera principale, nella grande produzione lettera­ria di Isidoro, è costituita da un voluminoso trattato, le Orygines o Etymologiae, in 20 libri. Si trattava di una vera e propria enci­clopedia del sapere medioevale, in cui la medicina occupava un posto di rilievo ed era illustrata nel IV libro, ad essa interamen­te dedicato.

Le Etymologiae godettero di una grande diffusione lungo tutto il Medioevo, tanto che di quest’opera ci sono per­venute circa mille copie manoscritte dagli amanuensi dei vari monasteri. Possiamo ritenere le Etymologiae come un tentativo organico e determinato di salvare le nozioni più preziose a cui la cultura del tempo poteva attingere e di trasmetterle ai con­temporanei e al futuro.

La caratteristica che rendeva quest’ope­ra originale e tipicamente legata al periodo storico in cui fu compilata era il metodo utilizzato come filo conduttore del testo. Per essere un trattato di natura scientifica, l’elemento comune adoperato suona alquanto originale per il lettore moderno. Isidoro si servì della grammatica quale strumento unificante nell’esplicazione dei contenuti. Fece riferimento all’insegnamento di Platone, illustrato nella Teoria dell’ascen­denza, in cui il linguaggio non veniva definito unicamente come un insieme di parole utilizzate per descrivere la realtà, ma rac­chiudeva in sé una traccia di questa realtà e la conteneva. Questa convinzione, apparentemente destabilizzante sul terre­no razionale della sequenza tra causa ed effetto, anticipava i ter­mini di quello che sarà uno dei dibattiti filosofici più importan­ti del Medioevo, la Questione degli universali, cioè se le parole fossero da ritenersi unicamente degli strumenti espressivi o fos­sero dotate anch’esse di una vita e di un significato propri, che trascendevano le cose da loro rappresentate.

Occorre sottolineare un altro elemento per comprendere la scelta di Isidoro di riferire il proprio lavoro alla struttura por­tante della grammatica. Quest’ultimo consisteva nell’idea cri­stiana della decadenza delle cose terrene, che descriveva il mondo come sottomesso da sempre, fin dalla sua creazione, ad un degrado di pura natura temporale. Per rintracciare l’origine incorrotta delle cose, bisognava quindi tornare indietro nel tempo, fino al Paradiso Terrestre da cui aveva avuto inizio la corruzione del mondo, attraverso la colpa del peccato originale. La concezione del paradiso era dunque un’idea dotata di signi­ficati di pura natura epistemologica, il luogo traslato in cui le parole riprendevano il proprio significato più autentico e tutta la loro potenza e validità rappresentativa.

Tramandare l’etimo­logia delle parole e rivelarne le corrette inferenze con le cose permetteva di recuperare con coerenza la struttura stessa del reale, nonostante questo avvenisse in un contesto storico e sociale di estrema precarietà. Le regole e gli organi di governo dell’antico impero erano stati distrutti e l’imbarbarimento della popolazione aveva reso l’analfabetismo e la povertà un’espe­rienza comune. Anche se si fosse potuto continuare a studiare dal vivo la natura, quale ricaduta pratica questa conoscenza avrebbe potuto rivestire quando i bisogni del quotidiano e le necessità primarie dell’uomo erano così difficili da ottenere?

Le stesse motivazioni culturali avevano perso la maggior parte della loro attrattiva, perché il fine urgente dell’esistenza non era tanto comprendere la realtà, ma procurarsi la salvezza dell’anima, come S. Ambrogio (339-­397 d.C.) aveva predicato nei suoi scritti, attraverso la metafora del corpo visto come un logoro indumento, che nascondeva il tesoro dell’anima immor­tale. Oggi che il ruolo del linguaggio nella ricerca scientifica potrebbe riassumere un nuovo e consapevole interesse, Isidoro sembra rivestire un compito di illuminato anticipatore.

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