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interpretarsi

La bolla sociale funziona ovviamente così: che siccome mi sono scelto gli amici che sono un po’ simili a me, e tendo sempre e più volentieri a parlare con loro, e a sorridere di quello di cui sorridono loro, e a indignarmi di quello di cui si indignano loro, e a condividere idee che sono un po’ simili a quelle che condividono loro, poi finisce che penso che il mondo mi assomigli un po’… È un’interpretazione del mondo a cui mi conduco da solo, insomma. E non è vero, ovviamente, ma mi consola un po’. E così mi è successo in questi ultimi due giorni che alcuni miei amici abbiano condiviso post che dicevano di quanto fosse utile lo studio della letteratura. E mi è successo di consolarmi un po’.  E poi subito mi è anche successo di pensare che invece no, che era la mia bolla, che non dovevo mica crederici e tutto quello che ho già scritto sopra  che non scriverò più… Però non importa, mi sono anche detto, io ho soprattutto bisogno di essere consolato un po’, in questi giorni. E alla bolla interpretativa ci penserò un’altra volta.

 

E parto da qui, allora. Da questo articolato e interessante saggio scritto da Mario Barenghi , che non a caso si intitola Perché insegnare la letteratura e che mette a fuoco diversi nodi essenziali del nostro essere «letterati» ma soprattutto questo, e cioè che lo studio e la lettura dei libri sono nient’altro che il continuo e ininterrotto nostro tentativo di dare contorno a quello che siamo noi mentre leggiamo i libri:

 

non finiremo mai di rileggere la Commedia, i Canti, i Promessi sposi, e tante altre opere sulle quali in astratto dovremmo aver già appreso tutto quello che c’era da apprendere. Ma qui sta il punto: l’interpretazione letteraria non è un lavoro astratto. Ogni atto interpretativo costituisce una rivendicazione di attualità, una proclamazione di pertinenza rispetto a problemi del presente; ovvero, rispetto alla produzione viva, consiste in attribuzioni di valore che non possono non essere, pressoché di norma, controverse. Per questo è non solo inevitabile, ma giusto e appropriato che i discorsi sulla letteratura in parte si sovrappongano o si contraddicano, corroborandosi o smentendosi vicendevolmente, e in parte riprendano cose già dette, non importa se mesi, anni o secoli fa. Il nostro lavoro consiste in buona misura nel riformulare temi e argomenti già avanzati più o meno chiaramente in passato: i quali, posti sullo sfondo di orizzonti storici o concettuali inediti, collocati in una differente rete di relazioni, inclusi in contesti diversi, espressi con parole nuove, acquistano una nuova forza esplicativa. Più che alla conquista di territori inesplorati, ci dedichiamo a un lavoro di rielaborazione e ripensamento, di contestualizzazione, di taratura. Siamo impegnati a conservare, non meno che a innovare. Del resto, studiare un testo o un autore equivale in ultima analisi ad affermare o a ribadire che vale la pena di leggerlo. Implicito alla critica letteraria è un gesto ostensivo: guardate, vi mostro come e perché quest’opera merita la vostra attenzione. Detto altrimenti: oggetto della ricerca non sono tanto fatti o fenomeni, quanto relazioni: nelle quali il soggetto – i lettori, cioè noi – siamo direttamente coinvolti.  

 

Ma non è tutto qui. Mi pare indispensabile, infatti, segnalare anche questa bella intervista a un altro letterato che, seppur in termini più colloquiali, affronta gli stessi temi. E che a un certo punto, con la semplicità con cui è necessario ribadire le idee più importanti, dice così:

 

La paideia umanistica si rivela l’antidoto migliore per rimediare a qualsiasi forma di appiattimento culturale. Essa determina pensiero critico, flessibilità mentale, creatività e fantasia e fa convinti che il presente non basta a se stesso e che non bisogna lasciarsi avvolgere dal cosiddetto pensiero a breve termine, ma dal pensiero a lunga durata. La conoscenza del proprio passato diventa importante per ricercare in esso il senso di identità e di appartenenza, individuando linee di collegamento con il presente, che non si riduca a riaffermazione dell’identico, ma che accanto all’identico riconosca anche l’altro da noi, l’estraneo, il diverso, il non più uguale.

 

E ci sarebbe anche qualche lamentela, di cui farsi carico oggi (lamentele di grandi studiosi, per cui degne davvero della nostra attenzione) o addirittura qualche affinità da sottolineare tra me e voi, in questa giornata di curiose coincidenze (affinità, intendo, tra me che scrivo e voi, che in qualche studio di qualche ospedale state facendo diagnosi su altri esseri umani, come me e voi). Ma più ancora c’è da ripensare a molte delle letture e delle interpretazioni che abbiamo fatto e a cui abbiamo creduto in questi ultimi trent’anni; perché forse anche le nostre letture non sono più solide e lucide come abbiamo creduto che sarebbero per sempre state. Lo racconta, in uno splendido post sulla lettura scolastica di una poesia, Daniele Lo Vetere, che parte da un presunto fraintendimento per giungere a una più presumibile necessità di una rilettura. Perché ogni testo che leggiamo siamo noi che leggiamo quel testo, sono gli altri che lo leggono con noi, perché non c’è verità di cui un testo letterario sia portatore se non collide con la verità che stiamo portando o cercando noi lettori. E Daniele Lo Vetere racconta così:

 

«Qualcuno mi ha detto / che certo le mie poesie / non cambieranno il mondo. / Io rispondo che certo sì / le mie poesie / non cambieranno il mondo.» Qualche giorno fa ho letto questa poesia di Patrizia Cavalli in una classe seconda. Si tratta del testo di apertura, eponimo, della prima raccolta della poetessa, Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974). Il dialogo tra me e la classe intorno ad esso merita di essere riportato.

 

E potrei davvero chiudere qui, almeno oggi, per non approfittare troppo del vostro tempo. Ma se non avete avuto voglia di aprire nemmeno uno dei link riportati sopra, oppure se vi siete stancati già al primo, o ancora se li avrete per caso tutti deludenti (colpa mia), ecco, vi chiedo almeno la poca pazienza che serve a leggere un brevissimo racconto su un’opera d’arte contemporanea e il suo incontro con il pubblico, che poi sarà una specie di lettore, che poi saranno gli uomini cui l’opera d’arte è rivolta, gli stessi a cui si rivolgono i libri e le poesie, gli stessi che interpretano libri e poesie e opere d’arte. E che ci dice di nuovo quello che già abbiamo detto all’inizio: e cioè che non c’è arte (né letteratura) senza incontro, che non c’è interpretazione senza relazione, non c’è comprensione che non sia comprensione di sé e del proprio sentire. Inizia così, il breve ultimo racconto:

 

E sempre alla Galleria Nazionale una signora distratta è inciampata in un’opera d’arte, La ricostruzione del dinosauro, di Pascali, che era collocata sul pavimento (inciampare in un quadro appeso a un muro sarebbe stato più difficile, anche se più interessante), e nel farlo l’ha modificata: un pezzo non era più allineato con gli altri ma era diciamo un po’ per i fatti suoi. È accorsa una sorvegliante, che mi ha chiesto cosa fosse successo. L’ho detestata e avrei voluto risponderle «scoprirlo è il suo lavoro, si dia da fare», invece ho timidamente indicato il luogo dell’incidente, dove però, con grande senso di civiltà, era ancora presente la signora, che è stata sgridata, che si è scusata…

Davide Profumo
Davide Profumo
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