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innocenza crudele

Stavo leggendo (e lo facevo distrattamente, come mi capita troppo spesso, anche se non so perché), stavo leggendo un post di Romano Luperini che si intitola così: «Cosa deve sapere di Tozzi un italiano mediamente colto?». Stavo dunque leggendo questo post e pensavo che quindi non sono un italiano mediamente colto, e mi dispiaceva di pensarlo, perché avevo sempre avuto la presunzione di credere di esserlo. E mi dicevo, mentre leggevo distrattamente, che della letteratura di Federigo Tozzi io ricordo assai poco, non so quasi niente, un titolo, per esempio, di un romanzo che lessi molti anni fa ma di cui quasi non ricordo nulla, «Con gli occhi chiusi», e forse nient’altro, i paesaggi senesi, le strade di Siena, ma niente altro davvero. E poi, in vece, il fulmine.

Mi sono venuti in mente (grazie a Luperini) i racconti della raccolta che si intitola «Bestie», mi è tornato in mente che li avevo letti e anche riletti, che mi erano piaciuti, ch erano misteriosi, che comparivano sempre queste bestie misteriose per cui io non trovavo ragione, e mi affascinava quest’assenza di motivi. C’erano le bestie, chissà perché, chissà cosa voleva dire quel loro giungere improvviso alla fine di un brevissimo racconto quasi senza trama…

E quindi ho pensato di segnalarvi il bel post di Romano Luperini e anche di proporvi un paio dei brevissimi racconti della raccolta Bestie, che si trovano tutti in rete e che forse anche voi potreste apprezzare, come accadde a me moltissimi anni fa. Il primo parla di un grillo:

Una sera d’estate mi sedei a piè d’un greppo e cominciai a fumar sigarette l’una dopo l’altra. Era molto scuro, e le stelle parevano così piccole che certo avrebbero bucato. Avrei voluto con me un amico per parlare di qualche cosa, o meglio per ascoltarlo. Quando voglio bene ad un amico, mi piace di più star zitto fumando.
Quasi annoiato e intristito a star lì, appuntellai le mani su l’erba e feci per alzarmi. Allora un grillo, così vicino che non raccapezzavo dove, cominciò a cantare. Era tra le mie ginocchia, forse? Era dietro di me? Né meno. M’era saltato addosso? Mi scossi tutto: no. Dovetti andarmene, e mi misi a piangere.

Il secondo invece di una cicala:

Io ho sempre avuto poco tempo di voler bene a qualcuno.
Quell’estate era così calda che né meno in cielo c’era posto per lei. Pareva che il sole si levasse sempre più grande, ed era impossibile farsi un’idea di quando sarebbe tramontato.
Siepi polverose, cipressi che parevano per seccarsi, alberi, morti, saggine e granturcheti doventati bianchi, fili di ragno così lucenti che parevano di metallo che tagliasse le mani, usci screpolati, botti sfasciate, la terra così dura che non la lavorava più nessuno, i letti dei torrenti senza libellule e con l’erba appassita, salci che non crescevano più, gelsi con la foglia piccola, vomeri lucenti, sassi che scottavano, nuvole rosse come fiamme, stelle cadenti!
Una cicala, sopra il nocchio d’un olivo, canta: la vedo. Mi ci avvicino, in punta di piedi, stando in equilibrio dall’una zolla all’altra. La stringo. Le stacco la testa.

Nel terzo, infine, compaiono le civette:

Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me.
Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi.
Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda.
Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch’io terra da semina.
E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate.
Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette.

E in tutti, secondo me, c’è un’idea misteriosa di male senza colpa, come quello delle bestie, di innocenza crudele della natura, che è forse la cosa che mi ricordo meglio di tutto quello che una volta ho letto di Federigo Tozzi. Il che, per finire, mi lascia anche l’impressione di aver davvero dimenticato troppe delle cose che ho letto; ma che loro non abbiano mai dimenticato me.

Davide Profumo
Davide Profumo
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2 Comments

  1. .mau. ha detto:

    io confesso che in quinta liceo presi Tre croci e lo mollai dopo venti pagine.

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