una via di Milano
19 Febbraio 2020il racconto di noi e del virus
26 Febbraio 2020Mi dicono che, in tempi che ci paiono cupi e pestilenziali, la cosa migliore da fare sia scegliersi bene prima una nobile compagnia, poi un luogo appartato, infine trovare un numero sufficiente di storie che in quel luogo appartato possano allietare la compagnia che ci si è scelti. Mi dicono che una decina di persone siano il numero giusto, che una villa in campagna possa funzionare piuttosto bene, che dieci storie al giorno siano una quantità ragionevole. Così mi dicono (ed è il mio primo consiglio di lettura, che banalità).
Io li ascolto e mi rendo conto che non posseggo una villa in campagna, per esempio, ma ho un luogo abbastanza appartato da proporvi. E che dieci storie al giorno sono per me davvero troppe, ma che ne ho forse una che oggi vi può incuriosire. E che non riesco a immaginare compagnia che in questo frangente sia più nobile della decina di medici (per quanto inutilmente cardiologi, lasciatevelo dire…) che mi ospitano e mi leggono su questo sito. Cioè, come sempre, mi rendo conto che non ho nulla di quello che davvero serve e ho tutto di quello che più o meno serve; così mi accade da quando sono nato.
Ed ecco il luogo, quindi. Che è davvero appartato, al sicuro da qualunque pandemia. Ce lo ha indicato qualche giorno fa in un suo articolo leggero Roberto Contu, che lo ha trovato puntando a caso il dito sul mappamondo, e io me ne sono immediatamente innamorato. Si chiama Tristan da Cunha ed è un’isola sperduta, lontana da tutto, anche dai virus, «una specie di provvidenziale stazione di servizio nel nulla atlantico»:
Il primo ad avvistare Tristan da Cunha fu all’inizio del XVI secolo il navigatore portoghese Tristão da Cunha, il quale, in uno dei tanti tragici fuori rotta di quell’epoca di incredibili imprese, si trovò a un certo punto come Ulisse difronte a un immenso scoglio sovrastato da un’immensa montagna [e se non vi è venuto in mente il canto di Dante, a questo punto, siete un po’ una delusione…]. Tristão fu il primo a rendersi conto dell’estrema difficoltà d’accesso dovuta alle forti correnti e alle scogliere aspre che di fatto ancora oggi non permettono la presenza di un porto degno di questo nome […] Perché il fascino di Tristan da Cunha è proprio questo: ancora oggi è un posto assolutamente remoto e letteralmente fuori dal mondo. Non c’è un aeroporto, sono necessari almeno sei giorni di navigazione burrascosa per raggiungerla, infine non si sbarca direttamente ma è necessario un ultimo trasbordo su lance adatte a ormeggiare tra mille difficoltà sulla terra ferma.
Ed ecco allora che, se sarete arrivati fino a lì, potrete raccontare agli uomini che vi troverete la storia di un altro uomo abbastanza isolato, che però ha superato barriere e lontananze linguistiche come forse nessun altro tra gli uomini che sono adesso vivi. Si chiama Riccardo Bertani, è un contadino, ha 88 anni, e si dice che abbia imparato da autodidatta e conosca più di cento diverse lingue; il tutto senza mai muoversi dalla frazione di Caprara, comune di Campegine, non lontano da Reggio Emilia. La sua storia (bellissima), la trovate qui. A un certo punto vi potete leggere questo bel passaggio:
Nei decenni successivi Bertani dice di aver imparato il bielorusso, il ceco, lo slovacco, il polacco, lo sloveno-croato, il georgiano, il mongolo, l’uzbeko, l’osseto e diverse altre lingue dell’ex blocco sovietico. Alcune erano usate in regioni remote – come il rutulo, parlato da ventimila persone nella Repubblica del Dagestan – e non esistevano né grammatiche né dizionari che potessero aiutarlo a decifrarle. A un certo punto persino la Biblioteca Lenin di Mosca lo contattò per dare una mano con una traduzione dal yacuto, una lingua della Siberia nordorientale. “La lingua yacuta è antica: turca con elementi tungusi, manciuri e paleoasiatici. La parlano circa 500,000 persone. La traduzione mi riuscì”, mi spiega Bertani, e aggiunge: “Piacevo ai russi. Mi mandavano i dizionari gratis”. Bertani sostiene di aver passato la maggior parte della sua vita in questa piccola casa contadina, con le pareti e i muri irregolari, svegliandosi alle tre di mattina per studiare e tradurre fino alle nove prima di andare nei campi a lavorare, con poca grinta: “Sono sempre stato un contadino sbagliato”, si schermisce, “Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”.
Insomma, questa è la mia storia di oggi, dal luogo un po’ appartato e periferico che anche io, qualche anno fa, mi sono scelto. Spero vi abbia distratto per un po’, come le storie dovrebbero fare. Ora tocca a qualcun altro, mi dicono, ché di storie è pieno il mondo, ché di storie e di nobili compagnie non possiamo certo, nemmeno in tempi che ci paiono cupi e pestilenziali, fare a meno.