“Le vedi queste dita? Queste dita sono piene di calli!”, dice il nonno al nipote Robertino, con fare fiero e nostalgico, e poi spiega: “Noi, noi chattavamo!”, che riecheggia un po’ il “Noi credevamo” politicamente impegnato dei nostri padri, e il “Noi lavoravamo la terra” genuino di nonni e trisavoli, per chi ancora può dire di averli conosciuti.
Noi chattavamo, esatto, noi volavamo con la Ryanair e ci ammazzavamo di fatiche improbe e improbabili per risparmiare 12 euro su un biglietto da stampare all’ultimo minuto, noi facevamo l’interrail ma solo sotto i 26 anni, e ogni tanto, ancora, ci azzardavamo persino a uscire di casa a piedi. Nel 2089 si viaggerà ovviamente col teletrasporto, e le case saranno tutte spoglie d’arredamento, ma avranno soffitti enormi, soffitti da fissare quanto più tempo possibile, soffitti che ospiteranno la parte più importante della vita “associativa” di giovani e meno giovani: il social network dei social network, appunto, la Telepatia.
Quanto è lontano il 2089? Non lo so, ma so bene una cosa, anzi no, ne so almeno due: la prima è che io non ci sarò più, nel 2089 (e lo considero un bene). La seconda cosa che so è che, comunque, anche nel 2089 ci sarà qualcuno che, in un modo che forse oggi io non posso nemmeno immaginare, proverà a spiegare a un altro , con parole o chissà quali altri segni, quello che ha fatto, perché lo ha fatto, cosa ha sentito e provato mentre lo faceva, gli chiederà scusa, gli chiederà di essere capito e perdonato, gli chiederà insomma di essere amato. E ci sarà, mi auguro, quel qualcun altro che, in un modo che forse oggi io non so vedere né riconoscere, lo capirà e lo amerà.
È anche per questo che vi propongo questo bel post di Francesca Fiorletto, oggi. Perché, in qualche modo, cerca di dire che per quanto i mezzi (cosiddetti media) possano cambiare, i contenuti restano quelli, appena modificati, appena appena ritoccati, nella sostanza però sempre identici. E la sostanza è quella appunto che scrivevo prima, riguardo a me: che morirò in futuro e che oggi vi chiedo di ascoltarmi, di capirmi, di perdonarmi, di (se ci riuscite) amarmi.
Ma ho riletto anche un altro discorso oggi. L’ho riletto forse per la sesta o settima volta e di nuovo non mi è affatto sembrato un discorso sulla poesia, come pretende in apparenza di essere, ma piuttosto un discorso sulla cultura di massa (quella dei mass media, cosiddetti; e oggi dei social network, per esempio). È il discorso che pronunciò Eugenio Montale il giorno in cui ritirò il premio Nobel per la letteratura, nel 1975. E non so se è così «eccezionale», come dice il titolo del post a causa del quale l’ho riletto per la settima volta. So però che in certi passaggi insiste su cose che mi paiono perfette, come questa:
Fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita.
In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia cosiddetta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l’esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l’aiuto dello psicanalista. Prevalendo l’aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell’estetica. Ciò non vuol dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C’è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che mi riguarda personalmente. Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo.
Siamo nel 2016 e forse non si è ancora risvegliata. Ma lo farà, nel 2089 o più avanti, lo credo anche io. E chiederà a chi sarà rimasto ad ascoltarla la stessa cosa che chiedono tutti coloro che si ostinano a scrivere libri, poesie, letteratura. Di essere, almeno un po’, prima di morire, amati.