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Impianto di ICD nello scompenso non ischemico: nuove evidenze dallo studio DANISH

A cura di Antonella Potenza

Køber L, Thune J, Nielsen J.C, Haarbo J, Videbæk L, Korup E, et al., for the DANISH Investigators. N Engl J Med 2016; 375:1221-1230. 

I risultati dello studio DANISH hanno messo in discussione le indicazioni delle linee guida europee e americane all’impianto di defibrillatore automatico in prevenzione primaria nei pazienti affetti da insufficienza cardiaca a eziologia non ischemica.

Il trial DANISH è uno studio randomizzato, caso-controllo, multicentrico su pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico a eziologia non ischemica con frazione d’eiezione ventricolare sinistra (LVEF) ≤35%, sintomatici nonostante terapia farmacologica ottimizzata (classe NYHA II o III) e con valori di NT-proBNP >200pg/ mL.

560 pazienti sono stati randomizzati a sola terapia farmacologica secondo le LG internazionali (braccio controllo) e 556 pazienti a terapia farmacologica associata a impianto di ICD. Il numero di pazienti che ha ricevuto anche CRT era rilevante e sovrapponibile (58%) nei due gruppi; nel braccio dei controlli i pazienti ricevevano solo pacemaker biventricolare, nel braccio ICD un device combinato CRT-ICD.

L’endpoint primario, mortalità per tutte le cause, a un follow-up mediano di 67.6 mesi è stato osservato nel 21.6% (n=121) dei pazienti del gruppo ICD e nel 23.4% (n=131) dei controlli, in assenza di differenze statisticamente significative (hazard ratio [HR] 0.87; 95% CI 0.68 a 1.12; P=0.28). Tra gli endpoint secondari, la morte improvvisa cardiaca è risultata dimezzata nei pazienti portatori di ICD rispetto al gruppo dei controlli (4.3% versus 8.2%, HR 0.50; 95% CI 0.31 a 0.82; P=0.01), indipendentemente dalla presenza o meno di CRT e dall’età. L’altro endpoint secondario, mortalità cardiovascolare, non differiva in modo statisticamente significativo tra i due gruppi (HR 0.7; 95% CI 0.57 a 1.05; P=0.10).

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In una sottoanalisi per età, è risultato che i pazienti sotto i 68 anni portatori di ICD erano tra quelli che maggiormente beneficiavano dell’ICD in termini di riduzione di mortalità per tutte le cause (HR 0.64; 95% CI 0.45 to 0.90, P=0.01). Inoltre, i pazienti ancora più giovani (<60 anni) avevano un ulteriore guadagno in termini di sopravvivenza con una riduzione della mortalità per tutte le cause del 49% (p=0.02). Le infezioni legate all’impianto del device si sono verificate in 27 pazienti (4.9%) nel gruppo ICD e in 20 pazienti (3.9%) nel gruppo di controllo (p=0.29). Inoltre, il rischio di infezione del device nei pazienti con solo ICD risultava superiore al braccio controllo (5.1% versus 0.8% dei controlli; HR 6.35; 95% CI 1.38-58.87; P=0.006) e quello di shock inappropriati, altro fattore di rischio associato a tali dispositivi, è stato riscontrato nel 5.9% dei pazienti del gruppo ICD.

L’impianto di ICD nei pazienti con insufficienza cardiaca di origine non ischemica non riduce la mortalità totale rispetto alla terapia farmacologica standard, anche se dimezza la morte improvvisa cardiaca (outcome secondario); i risultati di questo studio hanno sorpreso la comunità scientifica internazionale e, anche se necessitano di ulteriori conferme, stimolano i cardiologi alla corretta personalizzazione della terapia soprattutto in base all’età e al rischio di morte per altre cause diverse dalla morte improvvisa.

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Antonella Potenza
Antonella Potenza
Dirigente Medico I livello. Cardiologia Interventistica IRCCS-ASMN Reggio Emilia

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