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Quando da bambino la maestra elementare (o mio padre, o mia madre, o qualsiasi adulto a cui io riconoscessi l’autorità del sapere e dell’esperienza) mi nominava le migrazioni, io pensavo subito alle rondini. Oppure a certi mammiferi africani, che vedevo nei documentari televisivi mentre attraversavano fiumi giganteschi braccati dai loro predatori. O anche ai pinguini, è possibile, ma credo di no, perché dei pinguini e delle loro incredibili marce nella neve si è cominciato a parlare più tardi, quando io ero già adulto e in qualche modo mi pareva che tali viaggi alla ricerca della sopravvivenza non mi dovessero riguardare più.
Oggi, io credo, qualunque bambino o ragazzo senta pronunciare la parola «migrazioni», da qualcuno di cui è pronto ad accettare l’autorità, non penserà per prima cosa né alle rondini né ai pinguini. E sono sicuro che anche voi, che avete letto le poche righe da cui il mio post ha preso oggi l’abbrivio, avete pensato alla stessa cosa, agli esseri umani, a giovani esseri umani alla ricerca di qualcosa, forse alla ricerca di qualcosa che abbiamo noi, che è nostro, che ci teniamo stretto, ancora non abbiamo deciso quanto stretto. Mentre le rondini si limitavano ad annunciar primavera e non ci chiedevano nulla.
È per questo che mi è piaciuto molto leggere l’articolo sulla natura delle migrazioni animali e umane scritto da due scienziati, Enrico Alleva e Daniela Santucci, per la rivista web «Il Tascabile». Perché ci offre una prospettiva diversa (tutta biologica, o etologica) su un fenomeno cui siamo costretti quotidianamente a pensare, con cui dobbiamo obbligatoriamente fare i conti, che in qualche modo mette in discussione, quasi tutti i giorni, il nostro essere e pensarci «umani». (E c’è anche qui un’interessante riflessione al proposito, con una conclusione affidata allo scrittore David Grossmann che merita probabilmente la nostra attenzione).
Ma non è solo questo. La migrazione è anche viaggio, in effetti; forse è la radice stessa del viaggiare, il viaggio nella sua essenza terribile di scommessa mortale sul futuro. E il viaggio è, anche per queste ragioni, il cuore di così tanta parte della letteratura occidentale che viene quasi l’imbarazzo a citare un testo, o una poesia, o un personaggio per darne conferma a se stessi a ai propri interlocutori. Quando si parla del viaggio, insomma, vale un po’ tutto.
Ma Ulisse vale di più. E quindi, pensando che forse da un viaggio lunghissimo proveniamo e di viaggi lunghissimi siamo ancora qui, da sempre, a parlare, mi fa piacere ritrovare improvvisamente una poesia di Borges che credevo di aver dimenticato e che Roberto Mussapi ha fatto in modo che mi ricordassi. La trovate qui. Si chiede dove sia finito il grande viaggiatore Nessuno ora che Ulisse, stanco, dorme nel letto accanto a Penelope. Non dà alcuna risposta, ovviamente.