A cura di Vincenzo Toschi
Uno dei maggiori vantaggi legati all’uso degli anticoagulanti diretti (DOAC) rispetto al warfarin consiste nella netta riduzione delle emorragie endocraniche (ICH). Una metanalisi condotta da Ruff e coll., che ha analizzato oltre 40.000 pazienti con fibrillazione atriale arruolati nei quattro studi registrativi condotti rispettivamente con dabigatran, rivaroxaban, apixaban ed edoxaban, ha infatti dimostrato una diminuzione delle ICH di circa il 50% rispetto al warfarin1. L’analisi includeva anche pazienti ad alto rischio emorragico quali anziani, pazienti con insufficienza renale cronica o soggetti con concomitante terapia antiaggregante. Un rischio residuo di ICH nei pazienti trattati con DOAC viene tuttavia osservato con una frequenza dello 0.2 – 0.5% paziente/anno, con una conseguente elevata probabilità di disabilità permanente e morte. Nei pazienti con ICH che insorge in corso di in terapia con warfarin le linee guida internazionali raccomandano l’uso dei concentrati del complesso protrombinico (PCC) contenenti i quattro fattori vitamina K-dipendenti II, VII, IX e X2. Tale indicazione è rafforzata dai risultati di uno studio clinico randomizzato, lo studio INCH che dimostra, in una casistica di pazienti con ICH secondaria al trattamento con antagonisti della vitamina K, la superiorità dei PCC a 4 fattori rispetto al plasma fresco congelato, con una più rapida normalizzazione dei valori di INR e una minore espansione dell’ematoma endocranico3. Per quanto riguarda i DOAC, attualmente disponiamo di specifici antidoti capaci di inattivarne rapidamente l’effetto anticoagulante. Questi sono l’idarucizumab, specifico per il dabigatran,4 e l’andexanet alfa dotato di attività inibitoria nei confronti dei farmaci ad attività anti-Xa rivaroxaban e apixaban5. L’uso di andexanet alfa è stato approvato in USA e in Europa6. Tuttavia il farmaco è costoso e spesso non immediatamente reperibile. Per questo motivo le linee guida mantengono l’indicazione all’uso dei PCC nei pazienti in terapia con DOAC che presentano una complicanza emorragica che mette il paziente in pericolo di vita2. Va ricordato che l’antidoto specifico dell’anticoagulante diretto (idarucizumab o andexanet alfa) agisce attraverso l’inattivazione dell’effetto anticoagulante del DOAC, ripristinando così una normale capacità emostatica. Al contrario, i PCC potenziano l’emostasi grazie a un aumento della generazione di trombina, risultando pertanto protrombotici.
Recentemente, Panos e coll.7 hanno pubblicato i risultati di uno studio multicentrico retrospettivo osservazionale, condotto in una coorte di 663 pazienti trattati con PCC per una ICH secondaria a terapia con rivaroxaban o apixaban. I pazienti erano considerati elegibili per lo studio se veniva eseguita una TC basale e una entro 24 ore dal trattamento con PCC. La maggioranza dei pazienti (78%) era in terapia anticoagulante per una fibrillazione atriale e i PCC erano somministrati entro 2.6 ore dalla presentazione clinica. Il Glasgow Coma Scale score medio dei soggetti era di 14. L’emostasi era considerata eccellente se l’incremento delle dimensioni dell’ematoma endocranico al follow up era compresa tra lo 0 ed il 20% rispetto al valore basale, e buona se tra il 20.1 e il 35%. L’analisi di efficacia, che è stata effettuata in 433 pazienti con sanguinamento intraparenchimale o subaracnoideo, senza estensione intraventricolare o emorragia subdurale, dimostrava che 354 pazienti (81.8%) presentavano una buona o eccellente emostasi. L’analisi di sicurezza del trattamento è stata possibile in tutti i pazienti studiati. Venticinque pazienti, pari al 3.8% dell’intera casistica, hanno presentato un evento trombotico. In particolare in 15 pazienti è stata osservata una trombosi venosa profonda e in 8 uno stroke ischemico.
Lo studio di Panos e coll. è, al momento, il più importante finora pubblicato in termini di numerosità della casistica e di completezza del follow up e dimostra, nel mondo reale, un favorevole profilo di efficacia e sicurezza dei PCC nei pazienti con ICH secondaria all’uso dei DOAC ad attività anti-Xa. I risultati dello studio vanno tuttavia interpretati con una certa cautela. In primo luogo va sottolineato che, come specificato dagli autori, si tratta di uno studio retrospettivo osservazionale e quindi non prevede il confronto con un adeguato gruppo di controllo. Questo implica che non è possibile distinguere con certezza l’effettiva efficacia dei PCC da quella di eventuali trattamenti associati e/o di elementi prognostici propri dei pazienti analizzati. In secondo luogo, la popolazione studiata è tale per cui sono stati esclusi dallo studio i soggetti con ICH a maggior gravità, come indicato dal fatto che solo una piccola percentuale di pazienti (9.2%) presentava uno score di Glasgow inferiore a 7. Nell’analisi di efficacia, infatti, erano esclusi un totale di 320 pazienti con emorragia intraventricolare o estensione intraventricolare dell’emorragia, quelli con ematoma subdurale e quelli che necessitavano di intervento neurochirurgico urgente. In aggiunta, va rilevato che la TC andrebbe eseguita al momento del sanguinamento endocranico o comunque nel più breve tempo possibile, in quanto una notevole quota delle espansioni emorragiche avviene precocemente. Se la TC è eseguita con ritardo non è possibile confermare con sicurezza che la cessazione dell’espansione del focolaio emorragico sia effettivamente secondaria al trattamento pro-emostatico praticato, soprattutto se non si dispone, come detto, del confronto con un gruppo di controllo. Inoltre, nello studio, l’esatto intervallo di tempo trascorso tra insorgenza del sanguinamento ed esecuzione della TC non viene riportato in modo chiaro e pertanto non è possibile confermare con certezza l’efficacia dei PCC nel ridurre l’entità del sanguinamento. In aggiunta, gli autori non indicano chiaramente l’intervallo di tempo trascorso tra l’ultima dose di rivaroxaban o apixaban assunta dal paziente e l’infusione dei PCC. Non è possibile pertanto escludere in maniera assoluta, e in tutti i pazienti, che l’effetto di riduzione dell’espansione del focolaio emorragico possa essere legata alla cessazione dell’effetto anticoagulante dei due farmaci. Infine, l’insorgenza delle complicanze trombotiche viene registrata solamente durante il periodo del ricovero, senza verificare l’evenienza di ulteriori eventi di natura tromboembolica dopo la dimissione.
Nonostante lo studio di Panos e coll. aggiunga importanti elementi sul ruolo dei PCC nel trattamento delle complicanze emorragiche maggiori, e in particolare nell’ICH nei pazienti in trattamento con i DOAC ad attività anti-Xa, le considerazioni sopra riportate indicano la necessità di effettuare uno studio clinico randomizzato ad hoc avente lo scopo di valutare l’efficacia e la sicurezza dei PPC rispetto all’andexanet alfa, attualmente disponibile per uso clinico, consentendo conseguentemente di scegliere la migliore strategia per il reversal dell’attività anticoagulante di rivaroxaban e apixaban.