Isolamento, isolazionismo, insularità, isolante. Ci sono parole che corrono lungo il perimetro di se stesse (e il perimetro di un’isola, scusatemi il così facile gioco di significati, è l’essenza stessa del suo essere isola) raccontando sempre la stessa storia circolare, che non smette però di essere diversa ad ogni sguardo. Ed è da questa circolarità un po’ insensata e ottusa che, io credo, nasce la mia attrazione per le isole e per gli isolamenti, nella convinzione che sia quella dell’insularità la condizione privilegiata di chi riesce ad avere uno sguardo sul mondo che resta, il mondo non isolato.
Sant’Elena, per esempio: è difficile non pensare a Napoleone ma anche, almeno per me, ad Alessandro Manzoni, quando si pensa a Sant’Elena, in mezzo all’Atlantico, in mezzo al nulla, lontano da tutto e forse per questo più vicina a tutto quello che normalmente ci è lontanissimo ed estraneo (la pietosa mano di Dio, avrebbe detto don Alessandro). E in queste pagine si parla di un’isola come Sant’Elena la quale, viene addirittura da stupirsi, esiste davvero e forse sarà presto violata da un aereo che vi atterrerà per la prima volta. Come se Sant’Elena fosse più lontana della luna, come se Sant’Elena, insensato scoglio in mezzo all’acqua, fosse l’ultima isola che ci resta.
Ma se in letteratura italiana la parola «isola» deve avere un qualche significato, be’, quel significato è Sicilia, non altro. Per questo ho letto con piacere un post sulla letteratura siciliana e mi è tornata in mente con altrettanto piacere una frase di Roberto Alajmo, tratta da questo suo bel libro, che dice così: «Circola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi, rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: non lo sono, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati». Il post lo ha scritto invece Matteo Di Gesù, che parte da questa intelligente questione e la sviluppa con pensieri che a me sono parsi molto interessanti:
Cosa ha fatto, cosa fa della storia anche contemporanea della Sicilia una storia difficile? La costante pretesa di essere un’esperienza storica ‘speciale’, ‘diversa’, pretesa che concorre ad alimentare la mitografia: ecco allora ‘la Sicilia – nazione’, il cui ‘popolo’ sopravvive a tutti i soprusi e a tutte le conquiste : la Sicilia – isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia ‘feudale’ delle faide municipali, della gelosia possessiva, della cultura contadina.
Poi c’è un’altra isola più lontana da noi (ma non così lontana, purtroppo), che è invece un traguardo, un punto di arrivo, quasi un sogno per tante persone, di strane nazionalità che la guardano da lontano, un braccio di mare, una terra che forse non li vuole e che, io credo, se li prenderà comunque, con la forza, perché non se ne può fare a meno, perché le migrazioni sono questo, movimenti di gente che da millenni oltrepassa il mare, perché la fame passa il mare e i muri e tutti i confini segnati sulle carte di chi mangia. Di quello che accade a Calais, tra uomini che guardano all’isola dei britannici si racconta amaramente nel post che segue. Non è letteratura, è cronaca di uomini disperati. Ma sarà letteratura nei prossimi decenni, di sicuro; e forse solo allora la capiremo:
È pieno inverno e il tempo del nord non dà tregua. Pioggia mista a neve si abbatte su Calais. Dopo un primo giro esplorativo tra le vie impantanate della Giungla, chiediamo a un migrante d’origine africana dove avremmo potuto bere del tè caldo. Ci risponde senza esitare: “da noi, amici”, e ci fa strada tra i teli di plastica che compongono il suo rifugio. Ci dice di chiamarsi Patrick e che di professione fa il meccanico. Condivide quello spazio con altri cinque migranti sudanesi. Fuggono tutti dal Darfur, dove ha ancora luogo un conflitto ormai dimenticato. Ci preparano un tè e ci invitano a giocare a domino con loro. Kamal, diciassettenne, mi parla in italiano con un accento romano. Ha passato 60 giorni a Viterbo. Gli sono bastati per imparare la lingua. Adesso studia francese in una scuola della Giungla. Ci chiede dove abitiamo. “A Parigi, e tu?” “Io abito in Inghilterra”.
E così, da un’isola all’altra, sono finalmente arrivato a quella da cui, tacitamente, sono partito qualche ora fa, quando ho cominciato a pensare al mio isolamento e quello altrui. L’isola si chiama Lampedusa ed è protagonista di un film che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino e che mi dicono essere bellissimo. Anche l’isola è bellissima ed è, a mio parere, il centro del mondo in cui viviamo oggi, anche se è apparentemente così lontana e marginale; ma, lo sappiamo bene (e lo sapevano bene Napoleone, Manzoni e anche Pirandello), il perimetro di un’isola è un percorso circolare che non si finisce mai davvero di percorrere. E c’è qui una recensione del film se volete, che dice così:
La protagonista del film di Gianfranco Rosi Fuocoammare è Lampedusa, la Lampedusa nel cui mare sono morte migliaia di persone che arrivavano da più paesi, guidate dal sogno di una vita migliore. O meglio, sono due diverse Lampedusa che s’incontrano soltanto attraverso la figura di un medico locale che ci dice cosa significa accogliere e curare i migranti, o constatarne la morte: cinque minuti o poco più di una testimonianza accorata, cinque minuti che andrebbero mostrati in tutte le scuole e a tutti gli italici deputati, e funzionari, e professionisti e insomma a tutti i nostri ipocriti connazionali. Non ci fosse che questo, Fuocoammare sarebbe già un film memorabile, ed è forse questo medico che avrebbe dovuto essere il protagonista del film o il suo occulto maestro.