giovanni
7 Aprile 2016Notizie dall’ACCA
11 Aprile 2016[Chiedo in limine la vostra comprensione se, questa mattina, prima di arrivare davvero a quello che volevo dirvi, mi permetto questa piccola digressione, per citare un post e un avvenimento che mi stanno a cuore da molti giorni ma di cui non ho mai trovato il coraggio di parlare. Oggi Christian Raimo ha scritto poche righe su Giulio Regeni e la sua orribile morte. Non sono le righe che spiegano i fatti decisivi e nemmeno quelle che feriscono di più la nostra emotività (ben altre, e ben più atroci, ne ho lette in queste settimane); ma mettono in chiaro un paio di questioni che secondo me andavano davvero messe in chiaro, senza esitazione. Per esempio Raimo scrive:
Giulio era un ragazzo contemporaneo. Più che un italiano a cui restituire l’onore patrio, un cittadino del mondo. Parlava molte lingue, faceva ricerca di alto livello, si occupava di questioni internazionali, difendeva i diritti di altri popoli. È questo suo essere un cittadino del mondo, un esempio, che dovrebbero rivendicare il governo e i parlamentari a cui invece a parte rarissimi casi (vedi Luigi Manconi) del caso Regeni non importa nulla…
Lo trovate per intero su «Internazionale»: è breve ed efficace, merita secondo me la nostra attenzione.]
[Peraltro, se ancora mi perdonate il tempo che vi faccio perdere, c’è anche una storia di ordinaria scuola, che vorrei sottoporvi stamattina. La trovate brevemente raccontata su questo sito e poi vi basterà poco per ripercorrerla tutta, ampiamente, con il consueto corredo di interviste e lamentele e brutale ignoranza che normalmente accompagna questo tipo di storie sui «nostri ragazzi» (non su Giulio Regeni, invece). È una storia paradigmatica, a mio parere. Che più o meno comincia così:
A dicembre, con il sostegno di molti genitori, gli studenti del Virgilio occuparono per oltre due settimane la scuola. Coraggiosamente la collega denunciò gli occupanti, che per questo la attaccarono con una violenza verbale inaudita. Una violenza che si sta ripetendo in questi giorni per un fatto di cronaca che riguarda ancora il Virgilio. Agli occhi di molti studenti e anche di molti loro genitori, la preside si sarebbe macchiata di una sorta di “culpa in educando” consistente nell’ aver aperto la scuola ai carabinieri…]
[Poi so che magari vi piace avere anche qualche recensione di qualche libro, la domenica mattina. Ecco, ne avrei una anche oggi, in realtà. Forse un po’ ripetitiva, ma efficacissima. E purtroppo da me condivisa. La trovate qui. Ci metterete un attimo e capirete alla svelta tutto. Anche perché non ne cito nemmeno una riga, una riga, una riga.]
[E infine – prima di arrivare a dire quello che davvero volevo dire – addirittura Petrarca, visto che ho deciso di abusare clamorosamente della vostra pazienza. Un sonetto non molto conosciuto di cui Claudio Giunta ci offre una preziosa e brillante interpretazione, spiegandone un aspetto che ci viene sempre difficile da spiegare, quando parliamo di Petrarca (cioè, più o meno, mai: ed è una colpa grave, sappiatelo). Giunta scrive anche così:
Questo sonetto è originale e interessante soprattutto per due ragioni. La prima è che la poesia d’amore, tanto nel Medioevo quanto oggi, è spesso articolata come ricordo: il poeta rievoca la felicità passata, o il dolore passato, e mette in relazione quella felicità o quel dolore col suo stato presente (pensiamo per esempio al sonetto che apre il Canzoniere). In questo sonetto, invece, Petrarca rievoca con nostalgia non la passione vissuta bensì il momento in cui quella passione stava per essere sopraffatta, vinta dall’età: e la felicità sarebbe venuta dunque non dall’amore ma dalla cessazione dell’amore, ovvero dalla possibilità di vivere a fianco di Laura senza che il poeta fosse indotto al peccato. Questa è insomma una poesia d’amore nella quale l’amore viene rappresentato come un ostacolo, un pericolo che l’età avrebbe aiutato a superare (se la morte di Laura non avesse dimostrato vano questo desiderio).]
Ma la cosa che davvero volevo dire era però un’altra, lo sapete. Ed è la cosa che oggi scrive meravigliosamente Paolo Nori, su «Libero» (e mai testata giornalistica ebbe nome più adatto, ci capiamo). Quando racconta di una sua visita in carcere e di cosa sia la letteratura in un carcere e di cosa possa essere e di come si possa raccontare la propria prigione e di come le parole, le stesse parole, trovino in carcere accezioni diverse. È una lettura splendida. E ve lo dice uno come sono io, che crede, da sempre, che la letteratura sia semplicemente il modo che abbiamo di descrivere minuziosamente i muri della prigione che abitiamo. Ma Paolo Nori, fidatevi, lo dice molto meglio:
Questa settimana sono andato in carcere, a Bologna, alla Dozza. Non c’ero mai stato. Sono andato in autobus, col 25, e ho chiesto all’autista se poteva avvisarmi quando arrivavamo, lui mi ha detto che c’era l’avvisatore acustico, un nastro che diceva il nome delle fermate. Allora gli ho chiesto come si chiamava la fermata del carcere e l’autista mi ha detto che la fermata si chiamava Carcere.