Quando ci saremo finalmente stancati tutti di avere finalmente saputo di chi era la mano le cui dita hanno battuto su una tastiera (o hanno tenuto in mano la penna, questo ancora non lo sappiamo, chissà se è davvero importante saperlo, anche questo) le lettere che compongono i romanzi della cosiddetta “Elena Ferrante” (qui trovate tre diverse interpretazioni della scoperta “letteraria” dell’anno: una, due, tre. Io sono, se proprio ci tenete a saperlo, d’accordo con la numero due, quella con il titolo pavesiano), allora forse avremo voglia di leggere qualcosa di altro (o magari, anche, di leggere e rileggere i romanzi stessi della “Ferrante” cosiddetta, che sono comunque meglio degli articoli che ne svelano l’identità [come se davvero l’identità, peraltro, si potesse seriamente svelare, dico io] [e comunque a me piacque più di ogni altro I giorni dell’abbandono, se magari ci tenete a sapere pure questo]), ecco io sono pronto qui a proporvi appunto quel “qualcosa di altro”.
Che sono due articoli non brevissimi e nemmeno facilissimi. Ma belli, a mio parere. Il primo che parla di migranti e di un luogo che i migranti li vede passare da secoli, di ogni nazione e di ogni colore, con ogni speranza e ogni disperazione. È la valle del Roja, tra Italia e Francia, che fu anche il luogo da cui parlava la splendida e sommessa e limpida voce di Francesco Biamonti, anche lui alle prese con migranti già passati, i cui figli, ci auguriamo, sono adesso europei come me e come voi, residenti in chissà in quale città della Francia o di altrove. Il pezzo, bellissimo, lo ha scritto Francesco Migliaccio e inizia così:
Alla foce del Roja ho lanciato un ramoscello nell’ultima acqua del fiume. Davanti a me i bagnanti s’apprestavano a lasciare la spiaggia, qualcuno approfittava di un’ultima doccia – presto l’oscurità sarebbe calata su Ventimiglia. Solo la tenda blu di due ragazzi neri rimaneva eretta fra i ciottoli. Ero nel punto estremo dove il torrente diventa mare. Il frammento leggero era trascinato dalla corrente sino alla linea mobile delle onde. Qui iniziava un’oscillazione indecisa, una turbolenza lungo la frontiera vaga della foce. Il ramo s’infrangeva contro un’onda, poi contro un’altra, ma poco a poco si spostava verso destra alla ricerca di una via di fuga. Infine è passato e s’è perso nel mare aperto.
Il secondo articolo parla di nuovo di un luogo e delle persone che lo abitano, che ci passano, che vorrebbero restarci ma non possono, che non lo abitano più. È il quartiere Marais di Parigi, uno dei più belli di una città tra le più belle del mondo. E ne fa un ritratto interessante Anna Momigliano, parlando di comunità gay, di ebrei e musulmani, e anche di gentrificazione e di turismo; e chiudendo, con quel po’ di enfasi che ce la fa apprezzare quasi di più, con queste parole:
Qualcuno dice che la Francia, grande malato d’Europa, è incapace di accettare le differenze. Tra messe al bando dei burkini nelle spiagge, dei simboli religiosi a scuola, e presidenti che dichiarano che i valori della République sono i seni scoperti della Marianna, e non le donne velate, le identità forti non hanno un loro spazio nel Paese, e il risultato è talvolta un identitarismo esasperato fatto di ghetti chiusi, di comunità che non si sentono parte della nazione. Il Marais invece è un ghetto aperto, dove essere ebreo, o gay, o appartenere a una qualsiasi minoranza, è un argomento di conversazione, un pizzico di sale che rende una pietanza più interessante senza cambiarne radicalmente il sapore. È una forma evoluta di folklore tra persone che, sotto sotto, condividono gli stessi valori. Il prezzo da pagare, fanno notare i critici, è trasformarsi in una versione edulcorata di se stessi. È indossare una sottile maschera che si chiama modernità: c’est pas grave, il Talmud insegna che la verità è un dono assai prezioso, da usare con parsimonia, e se un giorno la Francia dovesse collassare sotto il peso delle sue contraddizioni, avremo sempre il Marais.
E infine, lo confesso, anche a me, se avessi mai scritto romanzi sotto pseudonimo, non so perché, mi sarebbe molto piaciuto chiamarmi “Elena”. E scatenare guerre decennali, anche.