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il futuro semplice

Sarà (futuro semplice) un anno di importanti ricorrenze, dantesche ma non solo (l’altroieri, per esempio, abbiamo vissuto il centenario della nascita di Leonardo Sciascia: e forse non vi è sfuggito l’omaggio appassionato che gli ha dedicato Luigi Sanlorenzo, lo trovate qui, il più bello tra quelli reperibili in rete, a mio parere).

Sarà dunque un anno di celebrazioni e di ricordi e di nostalgie; ma sarà anche l’anno in cui le opere di Casare Pavese, morto settant’anni fa, diventeranno di pubblico dominio, e anche questa è una nostalgia. Già sono pronte a uscire nuove edizioni dei suoi romanzi e di suoi versi, segno che lo scrittore è diventato un «classico», uno di quelli che faranno il cosiddetto canone letterario del Novecento, uno di quelli che gli studenti, canaglie, del futuro dovranno in qualche modo studiare.

Ed è dunque quasi ovvio che ci sia chi ha voluto scrivere di questo passaggio letterario pavesiano del 2021. E tra tanti contributi interessanti ce n’è stato uno che mi ha quasi commosso, perché parla di due testi in versi di Pavese che ho sempre amato molto, forse senza sapere il perché. Lo ha scritto Demetrio Paolin, questo contributo, e lo trovate qui, insieme ad altri meritevoli di altre letture (ma cercate il suo, prima di ogni altro: sono in ordine alfabetico). L’articolo di Paolin parla infatti di Paradiso sui tetti, che è un testo intensissimo, e di Passerò per Piazza di Spagna, che è poesia meravigliosa: e nota un particolare sui tempi verbali usati di queste poesie che ne è una chiave interpretativa davvero luminosa (l’aggettivo, lo capite, è perfetto). Demetrio Paolin scrive infatti così:

Sbaglia chi vede come tempo grammaticale della nostalgia il passato (nelle sue diverse declinazioni di imperfetto, passato prossimo, remoto o presente storico); il tempo della nostalgia è il futuro. Le due poesie che stiamo analizzando hanno come tema il ritorno, ma non tanto a qualcosa che è stato, ma a qualcosa che sarà: una condizione di pace, equilibrio. L’intuizione pavesiana è bellissima: il tempo della pace, il tempo della mia infanzia che io ho testardamente cercato andando indietro è in realtà ciò che mi aspetta.

Ecco, mi pare che sia anche questo un pezzo del grande segreto che fanno la bellezza di queste due bellissime poesie di Pavese (i testi li trovate linkati dallo stesso Paolin, valgono la domenica mattina, lo assicuro): c’è l’idea del futuro che cerchiamo semplice, che rimpiangiamo semplice, anche se il futuro non è mai semplice, non può esserlo più, e proprio per quello ne abbiamo nostalgia…

Ma c’è un altro dettaglio che ha colpito la mia attenzione. Alla fine del pezzo, Paolin cita Euridice: scrive che c’è qualcosa di questa donna perduta nella scena finale (ferma e chiara) che la ritrae. L’ho trovata un’intuizione critica puntualissima, perfetta. Ho ripensato all’Orfeo di Virgilio, quello delle Georgiche, davanti al cui canto si apre la natura, si aprono le strade, si aprono le grotte tenebrose degli inferi… E ho rivisto il passaggio di Cesare Pavese, il suo avanzare entro una Roma di pietra, le donne che occhieggiano come lbelve ammansite, la città che si apre al suo passaggio di poeta…

Non so cosa ci sentirete voi, magari nulla. Ma le poesie fanno così, si divertono alle nostre spalle: e a volte parlano a tutti, a volte solo a qualcuno, a volte restano mute e non ci parlano più. E a volte, come a me oggi, ci dicono cose nuove grazie al fatto che qualcuno ci fa notare un tempo verbale, futuro semplice, che così semplice non era.

[Due postille quasi scolastiche, con il vostro permesso.

All’esame di maturità di quest’anno, sei mesi fa, ho chiesto di commentare una di queste due poesie, Passerò per Piazza di spagna, a una mia studentessa di quinta. Lei è stata brava, l’ha esposta e commentata molto bene. Ma il fatto curioso è stato che l’ha commentata a partire dall’ultimo verso, risalendone la corrente dei versi al contrario, come se la poesia fosse una strana salita, un’ascesa. Alla fine dell’esame, le ho chiesto se si era resa conto di averlo fatto. Lei mi ha detto che sì, lo aveva fatto apposta: «Ho avuto paura che, se fossi partita dall’inizio, mi avreste interrotto; e non ho voluto rischiare di non parlare dell’ultimo verso, perché è troppo importante». Io ho pensato che aveva fatto bene. Oggi penso (ma forse esagero) che anche in lei abbia agito, inconsciamente, la memoria di Orfeo ed Euridice, la loro forza, quel ritratto luminoso sulla soglia, bloccato lì, una volta per sempre, dalla poesia.

La seconda postilla riguarda invece le radici, il ritorno e la memoria dei luoghi in cui siamo cresciuti e che abbiamo lasciato. Lo dico perché l’articolo più intimamente pavesiano che sia stato scritto in queste ultime settimane sul web non parla, paradossalmente di Pavese o di Langhe, ma di Bosnia e di Sava. È un articolo bellissimo, lo ha scritto Dino Huselijc, che racconta della sua infanzia balcanica, dei suoi ritorni sempre meno frequenti, degli amici che si perdono via via, di come il ritornare in un luogo sia inevitabilmente il ritornare in un luogo diverso, che non ci appartiene più, a cui forse non apparterremo mai più, anche se non smette mai di essere il nostro luogo essenziale. Mi fermo, leggete l’articolo, lo trovate qui… È anche questa una postilla scolastica perché anche Dino Huselijc è stato un mio alunno, al liceo. Lo scrivo qui, stamattina, con una strana e ingenua commozione: perché a volte si ha la sensazione di passare un testimone, qualcosa che sarà non un ritorno ma piuttosto un viaggio di andata, qualcosa che riguarda il futuro… Ma lo so, non avete bisogno di dirmelo: il futuro, finché ne abbiamo, non sarà mai così semplice.]

Davide Profumo
Davide Profumo
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