È necessario parlare di poesia. In una maniera e secondo ragioni che ancora mi sfuggono (e che quindi, visto che non sono più un ragazzo, mi sfuggiranno per sempre), parlare di poesia continua per me a essere un’azione che si nutre di imprescindibile urgenza, di pesante inevitabilità. In altre parole: non so perché io debba parlare di poesia, ma so che è giusto che io lo faccia. E lo faccio: tutte le mattine a scuola, per esempio. Di fronte ad alunni che forse, ogni tanto, si chiedono per quale ragione io ancora lo faccia. Non lo so, ragazzi: so che devo farlo, nient’altro. E poi lo faccio qui, come se contasse qualcosa; ma facendolo ho sempre l’impressione che conti qualcosa.
E quindi Arthur Rimbaud, per dirne uno. Una specie di icona della poesia, una sorta di ferita da cui si è mossa tutta la poesia dell’ultimo secolo e mezzo, il ragazzo a cui abbiamo affidato il nostro perderci nei labirinti della scrittura in versi. C’è un bell’articolo oggi che parla di un nuovo libro su Arthur Rimbaud. È una biografia (ero un quattordicenne di provincia quando lessi la mia prima biografia di Rimbaud, un milione di anni fa: non ci capii nulla, mi pare di poter dire. E però essa agì, chissà come chissà perché). E di Rimbaud si dice questo, nell’articolo che ne presenta la nuova biografia:
Non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così, ci dice Rimbaud: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. E poi, lo sappiamo scompare definitivamente, un fantasma presto dissolto nel nulla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
Ecco sì, anche per me è stato così. Anch’io ho misurato la mia rincorsa letteraria di questi ultimi quarant’anni sul ritmo del mio inseguimento di questo fantasma, la poesia, che ho sempre avuto davanti e non ho raggiunto mai [e voglio confessare anche un’altra inutile cosa: a quella biografia di Rimbaud io ero giunto, quattordicenne, dalle sue iniziali, che erano il titolo di una canzone di Roberto Vecchioni che amo ancora. Da lì, da quel titolo «A.R.» da quel ritornello, «E nave porca nave vai…», sono partito: per questo non posso essere d’accordo con quanto trovo scritto qui, in quest’altro articolo nostalgico e un po’ apocalittico (benché non privo di ragioni): perché a volte si parte dal basso e si arriva poi a vedere l’altissimo, può accadere, è la logica illogica dei fantasmi…]
Ma non c’è solo l’intervista su Rimbaud,oggi, che vale una lettura e un inseguimento al fantasma della poesia. Oggi c’è anche una stroncatura del libro di versi di Eugenio Scalfari che dice splendidamente che cosa non è la poesia. La trovate qui, è utile e gustosa, è azzeccata, è soprattutto utile. Ci dice che non di tutti i libri bisogna fidarsi, è giusto così.
E poi L’infinito, naturalmente. Il 2019 è l’anno leopardiano dell’Infinito, una poesia che davvero non smettiamo mai di inseguire, oltre il colle oltre la siepe, senza trovarla mai, perduti improvvisamente in quell’inatteso mare che ci avvolge e travolge, da cui non riemergiamo più. Oggi L’infinito è celebrato da Davide Brullo attraverso il racconto di due illustri traduzioni in russo e in tedesco, di Anna Achmatova e di Rainer Maria Rilke. È un’Infinito diverso da quello cui siamo abituati, un’Infinito che viaggia in altre lingue lontane dalla nostra. Eppure risuona il suo mistero anche in quelle parole straniere, come se qualcosa passasse, come se non tutto restasse al di qua della cruna. E alcune parole di Rilke paiono quasi decifrarlo, quel mistero leopardiano:
La natura, le cose che tocchiamo e usiamo, sono transitorie e caduche; ma, fintanto che siamo qui, sono il nostro possesso e la nostra amicizia, sanno della nostra miseria e gioia, come già furono i confidenti dei nostri avi… Siamo le api dell’invisibile… La terra non ha altra via di scampo che diventare invisibile… solo in noi può compiersi questa intima e duratura trasformazione del visibile nell’invisibile, in ciò che non dipende più dall’essere visibile e tangibile.
Eppure, anche dopo tutto questo, se oggi mi chiedeste come voglio definire la poesia nel mondo contemporaneo, dopo che l’ho inseguita così tanto tempo inutilmente, ecco, oggi, io avrei un’altra definizione da consegnarvi, completamente diversa. Che è questa:
… è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua…
L’ha scritta Paolo Rumiz e non parla della poesia ma vuole descrivere la città di Sarajevo, sotto le bombe dell’assedio di vent’anni fa. L’ho ritrovata in un bellissimo articolo che non parla di poesia ma di quella città e di cosa riusciva a essere anche assediata, anche schiacciata dal peso della guerra che la circondava e la riempiva di morte. Mi ha fatto venire in mente che la poesia è anche il fantasma del nostro resistere, del nostro non farci schiacciare, della forza che mettiamo contro le armi ci vengono puntate contro il petto. Un fantasma che ci salva, come aveva scritto un altro poeta, quasi cento anni fa, anche lui.