Il dottore va al congresso
14 Marzo 2018le inspiegabili
21 Marzo 2018A proposito di letteratura insegnata a scuola, mi devo fare delle domande, anche io come Federico Bertoni, ogni volta che entro in classe. E anche io mi faccio più o meno le stesse domande che si fa Federico Bertoni, e che lui ha scritto in questo post e in questo suo libro, entrambi, direi, di grande interesse per me e forse anche per voi:
Ogni volta che entro in un’aula, mi siedo in cattedra, preparo coscienziosamente appunti, libri e PowerPoint, una domanda irriverente affiora da qualche scantinato della mente e poi sparisce tra i cespugli come il coniglio bianco di Alice: che ci faccio qui? E mentre tento di concentrarmi sull’argomento che sto per spiegare, l’alone di inquietudine diffuso da quella creatura sfuggente si condensa in altre domande: perché spiego queste cose? Per quale intreccio di circostanze questi frammenti del mio sapere, ricombinati nella retorica della lezione, hanno qualche rilevanza per la formazione culturale degli studenti? Addirittura per la loro vita? Ha senso cercare un legame tra questi oggetti più o meno remoti e l’orizzonte d’esperienza delle persone che mi stanno di fronte, gli occhi annoiati o attenti, le penne piantate sui quaderni o le dita pronte sul pc? O forse bastano semplicemente a se stessi, sono importanti e basta, e dovete impararli perché ve lo dico io? Chissà se un fisico si fa le stesse domande quando deve spiegare il principio di indeterminazione?
E ponendomi queste domande più o meno tutti i giorni (tranne il mercoledì, in cui mi tengo ostinatamente libero), ho provato negli anni a darmi delle risposte convincenti o inutili o soltanto consolatorie. E negli anni queste risposte sono pure cambiate, lentamente o rapidamente, cambiando evidentemente io, cambiando gli studenti, cambiando pure i tempi e i toni e i luoghi in cui e le pongo, tali domande. E oggi, quando entro in classe a spiegare Petrarca, la risposta che mi do alle domande che io e Bertoni ci poniamo è che abbiamo assoluta necessità di restare in contatto con i nostri sentimenti; e che la letteratura è la strada più efficace per farlo; e che i nostri studenti ne hanno un bisogno ancora più grande, anche se magari non se ne accorgono, perché il mondo ipertecnologizzato in cui crescono li spinge ancora di più a chiudersi, a nascondersi, e infatti sono sempre più timidi e ansiosi, ogni anno di più, sempre più spaventati dalla scuola e dagli altri, e sempre più lontani, appunto, dal comprendere i loro sentimenti, le loro ansie, le loro paure. E la letteratura, insomma, a questo deve servirci: a non distaccarci da quello che proviamo, a trovare le parole per dire quello che proviamo, a raccontarci quello che sentiamo nel profondo di noi stessi e spesso non sappiamo nemmeno di provare, perché ci siamo resi estranei al nostro cuore; ad aprire dunque un varco nella pietra del dolore, per dirci che lo proviamo, il dolore, ed è per quello, non per altro, che stiamo male.
E infine, a chiudere il post di oggi, c’è stato un libro che ho letto in questi giorni e che mi è piaciuto tantissimo, proprio perché mi pare perfetto nel raccontare la distanza che gli uomini (i maschi, in questo caso) sanno mettere tra loro e i loro stessi sentimenti, fino a non sapere più di provarli, fino a negarli, fino a essere infelici senza riuscire nemmeno più a capire in quale modo sono infelici. Il libro si intitola Tutto quello che è un uomo, lo ha scritto David Szalay (bravissimo) e lo trovate raccontato anche qui. Io posso solo far notare che è un libro di nove racconti ambientati in tutta Europa, da una città all’altra, da un paese all’altro, come se non ci fosse distinzione tra una città e l’altra, come se il cielo fosse dappertutto lo stesso. E che c’è sempre qualcosa che ha a che vedere con il sesso, in ognuno dei nove racconti; e che c’è sempre un uomo (un maschio) che soffre per questa storia, di sesso e di viaggi, senza capire il perché. Forse, credo io, perché non ha letto abbastanza letteratura.
2 Comments
Caro Prof, visto che scrive per un sito medico, mi piacerebbe sapere – a dire il vero credo di saperlo – a cosa pensa serva la letteratura a noi medici. Mi piacerebbe sapere se lei crede, come credo io – e chi la invita a scrivere qui – che la tecnologia è una cosa e la sua gestione è un’altra cosa. Ho appena letto “il dottore va al congresso” e francamente sento il bisogno di rifletterci un po’.
Grazie
Gentile Stefania, c’era proprio nell’ultimo post (prima di questo) un link abbastanza esplicito e interessante sul possibile stretto rapporto tra medicina e letterattura (questo link: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/766-medicina-e-letteratura-la-fragilit%C3%A0-dell%E2%80%99interprete.html); ma, anche a prescindere dalle intersezioni così finemente evidenziate, riconoscere l’umano è ancora uno degli obiettivi del medico, se mi è permesso di dirlo qui. E per riconoscere l’umano è ancora la cultura umanistica a poterci fare da splendida guida. altrimenti diventeremo dei bravi “curatori di organi”, non dei medici. Ed è in questo “riconoscere l’uomo” che la tecnologia non potrà di certo, a mio avviso, sostituirci.