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Il controllo dei livelli sierici di glucosio nel paziente critico, con particolare riferimento ai pazienti affetti da sindrome coronarica acuta

Il controllo dei livelli sierici di glucosio nel paziente critico, con particolare riferimento ai pazienti affetti da sindrome coronarica acuta
Filippo Ottani, Md, Emanuela Bacchilega, Coordinatrice Infermieristica

 

L’iperglicemia si correla ad una aumentata morbilità e mortalità nei pazienti ricoverati per patologia acuta, in particolare i pazienti “critici” e i “post-operati”. L’associazione appare consistente tanto per i pazienti con diagnosi accertata di diabete quanto per quelli con iperglicemia di nuovo riscontro. La “direzione” della relazione rimane ancora controversia; l’iperglicemia è espressione di un paziente più grave in cui i meccanismi di contro-regolazione si manifestano tramite un elevato livello di glucosio ematico, oppure l’iperglicemia acuta è causa di prognosi infausta?

L’evidenza sperimentale supporta la relazione “causa-effetto”. L’azione dei leucociti, la produzione di immunoglobuline, la funzione endoteliale, la performance cardiaca, e l’equilibrio idro-elettrolitico sono tutti alterati nell’ambito dell’iperglicemia, specie quando severa.
Sulla base di questa serie di dati è stato recentemente proposto dall’American College of Endocrinology (ACE), co-sponsorizzata dall’American Diabetes Association (ADA) e dall’Endocrine Society un livello di controllo dell’iperglicemia legata alla patologie acute particolarmente stretto, ovvero pari o inferiore 110 mg/dl (range 80-110 mg/dl), da ottenersi mediante trattamento insulinico endovenoso.
Tuttavia, sono pochi gli studi clinici randomizzati con adeguato disegno sperimentale (RCTs) che hanno indicato un chiaro beneficio prognostico del trattamento “aggressivo” dell’iperglicemia nel breve periodo (intraospedaliera o a 30 giorni).
Il primo è lo studio DIGAMI che ha valutato la somministrazione di glucosio ed insulina nei pazienti con infarto acuto del miocardio (IMA). Tuttavia il livello “target” di controllo della glicemia era assai più alto dello standard attualmente proposto (173 mg/dl a 24 ore e 144 mg/dl al momento della dimissione) e il disegno dello studio ha previsto, dopo il trattamento insulinico per via endovenosa, un trattamento aggressivo “multidose” di insulina per via sottocutanea. Ciò ha impedito di distinguere l’effetto benefico ascrivibile al trattamento endovenoso sul miglioramento della prognosi. Il beneficio inoltre si restringe alla cerchia dei pazienti sopravvissuti ad un IMA. Lo studio DIGAMI-2 non ha confermato il beneficio sulla mortalità in gruppo simile di pazienti. Circa 1300 soggetti con diabete di tipo 2 sono stati randomizzati a trattamento insulinico endovenoso seguito da trattamento insulinico aggressivo s.c. (tipo DIGAMI-1), al solo trattamento insulinico endovenoso, oppure a trattamento convenzionale. A 24 ore dall’ammissione in ospedale, il livello basale di glicemia pari a 229 mg/dl è stato portato a 164 mg/dl nei pazienti trattati con insulina endovena e a 180 mg/dl nei pazienti trattati convenzionalmente. Lo studio con metodologia più adeguata è stato condotto in ambiente di terapia intensiva post-chirurgica da Van den Berghe et al. Gli autori hanno randomizzato pazienti post-chirurgici che ricevevano ventilazione assistita ed uno schema di trattamento insulinico aggressivo con il fine di mantenere la glicemia tra 80-110 mg/dl. Il trattamento doveva iniziare quando la glicemia basale risultava superiore a 110 mg/dl. Il gruppo di controllo ha ricevuto un trattamento convenzionale in cui l’insulina e.v. è stata somministrata solo a coloro con glicemia basale >215 mg/dl per raggiunger un livello di controllo tra 180-200 mg/dl. I risultati dello studio sono stati eclatanti con una riduzione di mortalità per il gruppo trattato aggressivamente pari al 42%, principalmente legato alla diminuzione drastica delle complicanze infettive. Tutto il beneficio è stato concentrato nei pazienti cha hanno avuto un ricovero in terapia intensiva superiore ai 5 giorni, mentre in coloro in cui il ricovero è stato inferiore a tale durata la mortalità non è risultata differente.
Recentemente, gli stessi autori hanno ampliato le loro osservazioni studiando una coorte di 1200 pazienti internistici ricoverati in terapia intensiva medica (esclusi tuttavia i cardiopatici con sindrome coronarica acuta). Lo schema di terapia insulinica e..v. , il livello di glicemia basale da cui partire con la terapia aggressiva e il “target” di controllo glicemico da raggiungere sono stati gli stessi del precedente lavoro. Stessi parametri anche per il gruppo di controllo. A fronte dello stesso protocollo sperimentale, gli autori non sono stati in grado di dimostrare un significativo calo della mortalità totale al momento della dimissione ospedaliera (37.3% vs. 40%, p=0.33) nei pazienti sottoposti a trattamento insulinico endovenoso rispetto ai controlli. Nei primi, tuttavia, la morbilità è risultata significativamente ridotta sia in termini di nuovo danno renale, che di velocità di svezzamento dalla respirazione assistita e sia, infine, in termini di durata di ricovero in terapia intensiva. Nei 767 pazienti con durata del ricovero in terapia intensiva >3 giorni (sotto-analisi pre-specificata dello studio) il trattamento aggressivo dell’iperglicemia ha determinato una riduzione di mortalità significativa ( 43% vs. 52.5%, p=0.009), mentre nei 433 pazienti con ricovero <3 giorni la mortalità ha avuto un andamento opposto (42 pazienti nel gruppo controllo vs 56 pazienti nel gruppo trattato con insulina e.v., p=0.05 con test del chi-quadrato). Il limite maggiore dello studio risiede nel fatto che e’ possibile prevedere la durata della degenza per poter eventualemente decidere se iniziare o meno la terapia insulinica endovenosa. Un secondo, non trascurabile limite di entrambi gli studi di Van den Berghe et al. risiede nel fatto che entrambi fossero studi monocentrici.
I risultati di questi studi randomizzati sono estremamente importanti e sottolineano il fatto, fondamentale, che il controllo dell’iperglicemia nei pazienti con patologia acuta (siano essi pazienti internistici, post-chirurgici o con sindrome coronarica acuta) è un fatto estremamente positivo. Il problema di fondo rimane legato alla definizione del livello “target” di controllo che si vuole raggiungere, poiché a ciò si legano problematiche di ordine clinico, ma anche organizzativo tutt’altro che irrilevanti.
Il livello “rigido” di controllo glicemico, 80-110 mg/dl, che deriva dai lavori di Van den Berghe et al (che costituisce la base delle proposte ACE) è veramente molto aggressivo e chiaramente efficace solo nei pazienti post-chirurgici. Negli studi DIGAMI (1 e 2), in pazienti con IMA, un controllo meno “rigido” si è associato ad una riduzione di mortalità, anche non se non formalmente significativa. E’ di rilievo notare che, in una coorte di oltre 700 pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento persistente del tratto ST-T, Svensonn et al. hanno documentato, accanto al valore prognostico negativo a 2 anni di follow-up dell’iperglicemia, un altrettanto negativo valore prognostico dell’ipoglicemia, con un rischio di morte raddoppiato (Hazard Ratio 1.93, I.C.95%: 1.18-3.17) rispetto ai pazienti con normali e stabili valori glicemici per tutta la durata della ospedalizzazione. Sebbene gli autori non abbiano potuto fornire, in base ai dati in loro possesso, una chiara interpretazione fisiopatologica di “causa-effetto” di tale fenomeno, il dato in questione, tuttavia, sottolinea l’importanza, al momento attuale di mantenere un controllo “giudizioso” dei valori di glicemia per evitare elevazioni persistenti o cadute ipoglicemiche importanti , entrambe condizioni estremamente negative in termini prognostici nei pazienti con sindrome coronarica acuta.
Tra l’altro, livelli di controllo così stretti rappresentano con ogni probabilità un obiettivo assai lontano dallo “standard” di gran parte degli ospedali, e, più specificamente, delle terapie intensive. Prima di implementare linee guida che richiamino ad un “rigido” controllo dei valori di glicemia, è necessario costruire una adeguata “cultura” riguardo al problema, che includa una revisione delle nostre abitudine assistenziali, tenendo conto delle risorse, soprattutto umane, disponibili.
A tal fine alcune considerazioni conclusive possono essere proposte ai lettori, ovvero:
a)appare ragionevolmente proponibile nelle terapie intensive, ed in particolare in quelle cardiologiche l’uso di una livello “trigger” di 140 mg/dl di glucosio per iniziare un trattamento insulinico endovenoso, con l’obiettivo di ottenere un controllo glicemico il piu’ possibile vicino alla normalità cercando, al contempo, di evitare l’ipoglicemia e comunque qualunque valore <70 mg/dl,. La via di somministrazione endovenosa dell’insulina va sempre considerata come la più affidabile per raggiungere un valore stabile dei livelli glicemici, anche se uno schema considalito per via sottocutanea può essere sperimentato in prima istanza.
b)nei pazienti marcatamente iperglicemici, l’uso di un trattamento insulinico endovenoso, deve essere incoraggiato anche al di fuori della terapia intensiva, a patto che, prima, sia stato fornito il necessario “know-how” e le risorse tecniche per poter mettere in atto in modo sicuro tale “semplice” terapia.
c)ogni ospedale dovrebbe identificare e selezionare “team” multidisciplinari che includano endocrinologi, infermiere, nutrizionisti , farmacisti ed esperti della qualità al fine di elaborare strategie adeguate per una politica di miglioramento del controllo glicemico, specie nei pazienti “critici”.

Bibliografia essenziale
1.Van den Berghe G. et al. Intensive insulin therapy in critically ill patients. N Engl J Med 2001; 345: 1359.
2.Van den Berge G. et al. Intensive insulin therapy in the medical ICU. N Engl J Med 2006; 354: 449.
3.Malmberg K et al. Randomized trial of insuline-glucose infusion followed by subcutaneous insulin treatment in diabetic patients with acute myocardial infarction (DIGAMI study): effects on mortality at 1 year. J Am Coll Cardiol 1995; 26: 57.
4.Malmberg K et al. Intense metabolic control by means of insulin in patients with diabetes mellitus and acute myocardial infarction (DIGAMI 2): effects on mortality and morbidity. Eur Heart J 2005; 26: 650.
5.Garber Aj et al. American College of Endocrinology Task Force on inpatients diabetes metabolic control: American College of Endocrinology position statement on inpatient diabetes and metabolic control. Endocr Pract 2004; 10: 77.
6.Bryer Ash M et al. Point: inpatient glucose management. The emperor finally has clothes. Diabetes Care 2005; 28: 973.
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