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I pazienti con sindrome coronarica acuta devono essere sempre indirizzati precocemente alla coronarografia?

I pazienti con sindrome coronarica acuta devono essere sempre indirizzati precocemente alla coronarografia?

M.Lettino

Gli Autori della metanalisi hanno analizzato i risultati di alcuni grossi trial clinici che hanno arruolato pazienti con sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento persistente del tratto ST (UA/NSTEMI); l’obiettivo della loro osservazione e’ stato quello di valutare i benefici di una strategia routinariamente invasiva, che preveda cioe’ sempre l’esecuzione della coronarografia con eventuale rivascolarizzazione, versus quelli di una strategia “selettivamente invasiva”, che riservi l’accertamento angiografico solo ai pazienti con ischemia ricorrente o inducibile ai test provocativi. Da questo punto di vista sono stati riesaminati i risultati di 7 studi clinici per un totale di 9212 pazienti, condotti nell’intervallo di tempo 1994-2002, nei quali l’assegnazione ad una delle due strategie faceva parte della randomizzazione. I risultati dell’analisi hanno mostrato che i pazienti del gruppo “routine invasive” manifestavano complessivamente una minore mortalita’ o probabilita’ di eventi ischemici maggiori a 1 anno, e che tra essi, tale reperto era significativo nei pazienti ad alto rischio per caratteristiche cliniche e di laboratorio, compresa la positivita’ dei marcatori di danno miocardico. Esaminando la distribuzione temporale degli eventi, gli stessi pazienti avevano in realta’ una maggiore mortalita’ precoce (durante l’iniziale ospedalizzazione), cui seguiva dopo la dimissione un minor numero di morti e una ridotta evenienza della combinazione di morte o infarto miocardico non fatale; a questo si aggiungeva inoltre una riduzione del 33% dell’occorrenza di angina severa e del 34% della probabilita’ di nuova ospedalizzazione.
L’argomento affrontato nella pubblicazione e’uno dei nodi non ancora risolti dell’approccio diagnostico/terapeutico delle sindromi coronariche acute UA/NSTEMI, che vede una certa discrepanza tra i risultati ottenuti con la sperimentazione clinica e la pratica corrente; a complicare la situazione si aggiungono l’evoluzione nel tempo delle modalita’ di stratificare il rischio dei pazienti, con l’individuazione di nuovi marcatori sempre piu’ specifici, e la continua implementazione delle terapie di supporto alla rivascolarizzazione percutanea e dei presidi endovascolari disponibili.
Le implicazioni dello studio sono numerose. Posto che l’atteggiamento “routinariamente invasivo” si sia dimostrato il migliore, i risultati potrebbero spostare il cuore del problema dal quesito se fare una coronarografia in ogni caso, alla domanda “con che tempi programmare l’angiografia con rivascolarizzazione?”, rivalutando da questo punto di vista ogni singolo paziente, alla luce soprattutto del maggior rischio di mortalita’ o eventi in fase precoce. Questo peraltro e’ in pieno accordo con le linee-guida della Societa’ Europea di Cardiologia e dell’American Heart / American College of Cardiology Association, che caldeggiano l’opportunita’ di definire il rischio del paziente prima di selezionare il percorso invasivo e che riservano ai pazienti ad alto rischio l’opportunita’ di effettuare una coronarografia con eventuale rivascolarizzazione nelle prime 24-48 ore dall’insorgenza dei sintomi con il supporto di antipiastrinici maggiori. La stessa metanalisi di Mehta ha peraltro sottolineato che, esaminati come gruppo a se’, i pazienti con basso profilo di rischio non hanno manifestato prognosi differente secondo la strategia impiegata e per questa categoria l’ipotesi di una valutazione di ischemia inducibile o l’opportunita’ di intervenire subito solo in caso di recidiva resta ancora una soluzione sostenuta dall’evidenza.
Vanno menzionati alcuni dei limiti dello studio, tra i quali in primo luogo l’inclusione di trial clinici che coprono una decade nel corso della quale molti farmaci hanno modificato il decorso clinico delle sindromi coronariche acute: l’impiego degli antiGPIIbIIIa e’ diventato routinario solo alla fine degli anni ‘90, con notevole riduzione di eventi precoci (mortalita’ e reinfarto) nei pazienti ad alto rischio: solo tre dei sette studi della metanalisi li hanno utilizzati e in due di essi l’impiego si e’ limitato a meno del 30% dell’intera casistica. L’associazione di ASA + clopidogrel, che ha mostrato significativi benefici nei pazienti UA/NSTEMI con i risultati degli studi CURE e PCI-CURE comparsi successivamente, e’ stata impiegata solo in coloro che hanno ricevuto uno o piu’ stent durante angioplastica e per un limitato periodo di tempo.
Esiste inoltre una sostanziale eterogenicita’ tra i trial in termini di modalita’ di esecuzione delle angioplastiche, soprattutto per quanto concerne l’impiego degli stent, e di definizione dell’evento “reinfarto”, se correlato o immediatamente successivo alla procedura interventistica, sulla base di una non univoca scelta del valore limite ritenuto diagnostico dei biomarcatori di necrosi.
Infine un follow-up di un anno, quale quello su cui sono stati valutati gli eventi a lungo termine, potrebbe essere troppo breve per una casistica di questo tipo, ipotizzando che le curve di sopravvivenza libera da eventi delle due popolazioni continuino a divergere nel tempo e che il grande vantaggio in termini di mortalita’ e morbidita’ conseguibile a 3-5 anni, possa addirittura svalutare l’incremento di mortalita’ precoce documentato nei soggetti avviati routinariamente all’angiografia.
In conclusione, anche alla luce dei risultati del lavoro di Mehta et al, resta particolarmente importante definire il profilo di rischio dei pazienti con sindrome coronarica acuta non appena giungono all’osservazione medica, avvalendosi di tutti gli strumenti disponibili e che periodicamente la letteratura scientifica aggiorna. Una strategia precocemente invasiva migliora sicuramente la prognosi di tutti coloro che presentano un rischio elevato di eventi cardiovascolari maggiori a breve e lungo termine. E’ altrettanto importante praticare in tutti il miglior trattamento medico possibile cosi’come suggerito dalle linee-guida. E’ infine auspicabile che l’alto numero di analisi scientifiche di buon livello avvicini di piu’ la pratica quotidiana alle indicazioni in esse stabilite, modificando pertanto un diffuso orientamento verso una maggiore cura del basso rischio, che per ora sembra prevalente, a giudicare dai risultati dei registri osservazionali.

Bibliografia
Routine versus selective strategies in patients with acute coronary syndromes. A collaborative meta-analysis of randomized trials.
Mehta SR, Cannon CP, Fox KA et al. JAMA 2005; 293 (23): 2908-17

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