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Henri Bergson (1859-1941)

Henri Bergson era nato a Parigi in una strada nel cuore della grande città, vicino all’Opéra. Dopo la laurea in filosofia, duran­te un periodo trascorso a Clermont-­Ferrand come insegnante di liceo, Bergson scrisse un saggio su Lucrezio che si rivelò antici­patore di molte tematiche del suo pensiero. La straordinaria universalità e la perenne contemporaneità della poetica di Lucrezio lo influenzarono profondamente. I versi del grande poeta latino, dalla biografia misteriosa e sfuggente, recavano messaggi cifrati sul senso più profondo della vita e del destino dell’uomo. Tentando nella sua opera di descrivere la natura in modo agnostico, Lucrezio finiva invece per rivelare al lettore come il richiamo al distacco ed alla serenità esistenziali della filosofia epicurea nascondessero un’angoscia profonda. La visio­ne serena e pacata della vita che Lucrezio avrebbe voluto tra­smettere finiva per derivare in un’angoscia profonda, nel certifi­care la mancanza di risposte dell’uomo nei confronti degli inter­rogativi posti dalla propria presenza nel mondo. Pensiamo alla descrizione della peste di Atene, con cui si chiudeva il poema lucreziano, ma anche a passi meno spettacolari, come quelli in cui si descriveva l’insoddisfazione dell’animo umano, sempre pronto a passare dall’inseguire un desiderio ad un altro, nella ricerca di beni materiali e di piaceri sempre insoddisfacenti, senza trovare mai pace.

Il positivismo e la visione scientifica della fine del XIX secolo avevano accantonato il problema dei problemi, il senso ultimo esistenziale che desse un motivo al perché della ricerca scientifica. Bergson se ne rese conto. Tutta la sua storia di pensatore e di intellettuale si riflettè nella costru­zione di un’alternativa credibile a tanti luoghi comuni della filo­sofia e della scienza. A partire dalla prima opera di larga riso­nanza, Materia e memoria del 1896, Bergson si sforzò di critica­re molti luoghi comuni del pensiero filosofico. Iniziò con un attacco deciso al modello di comprensione dualistico della real­tà. Il dualismo costituiva una via semplice ed invitante per la percezione umana. Appariva facile ai più dividere ciò che si osservava in categorie spesso contrapposte, come materia e spi­rito, luce e tenebre, male e bene e via dicendo. Si trattava di una modalità di mettere ordine nel reale, una modalità di seguire una strada sicura.

A Bergson il mondo non appariva come formato da entità contrapposte, ma si presentava in modo complesso. Veniva descritto come un continuo di cui il pensiero costituiva la principale funzione ordinatrice, capace di valicare i confini delle categorie legate alla ristrettezza di precedenti convenzioni. Ne scaturì una particolare intuizione sulla soggettività del tempo, che si presentava al sentire dell’individuo come legato al fluire delle azioni ed alla loro rappresentazione interiore, una forma simile ad una specie di infinito presente. Un presente legato ad un continuo evolversi di sensazioni e di stati d’animo che l’individuo percepiva come differenti dal tempo spaziale. Questo era ciò che si svolgeva davanti allo sguardo delle perso­ne e sembrava comportarsi in modo lineare, come lo scorrere delle lancette dell’orologio su di un quadrante. Le idee di Bergson sul tempo furono espresse in una prosa elegante, che gli valse il premio Nobel per la letteratura del 1927. Erano in parte legate a quelle di un grande scrittore contemporaneo, Marcel Proust (1871-­1922). Un suo lontano parente, dal momento che Bergson aveva sposato Louise Neuburger, una cugina di Proust. Un’opera di Bergson che suscitò l’interesse dei contemporanei fu l’Evolution créatrice, un libro del 1907 che divenne un succes­so letterario. L’idea portante di quel testo era che l’evoluzione presentasse una caratteristica peculiare, da Bergson chiamata slancio vitale. Questo era una forza che pervadeva gli esseri viventi in un rapporto dialettico e continuo con l’ambiente. Una progressione multiforme della vita capace di superare sia le cate­gorie dell’ateismo evoluzionistico, che il finalismo religioso e confessionale sostenuto dalla Chiesa. Evoluzionismo e Finalismo venivano considerati dal filosofo francese come le due facce di una stessa medaglia, che prese il nome di Determinismo. Le varie specie viventi che popolavano la Terra erano dovute alle conse­guenze di uno slancio vitale primordiale ed indeterminato, che si era insinuato nella struttura della materia modificandola, fino a cristallizzarsi in una miriade di forme particolari, le singole specie. Ogni specie vivente appariva come testimonianza di questa spinta vitale, che si era differenziata spingendole in una direzione evolutiva. La visione metodologica di Darwin, basata su di una catalogazione delle prove a supporto dell’ipotesi evo­luzionistica venne modificata da Bergson in una dialettica tra lo spirito e la materia, che ne era stata permeata e modificata. Lo slancio vitale poteva perdere la propria irruenza e spegnersi len­tamente. Ripiegarsi su sé stesso ed annichilirsi, divenire prigio­niero del carattere fisico delle forme. In un’ampia visione cosmologica, le vite dei singoli apparvero al filosofo francese come delle singole scintille di un fuoco vitale che si espandeva­no temporaneamente al di fuori della massa informe della mate­ria, brillavano per qualche istante e poi si annichilivano su sé stesse, ritornando all’oblio indistinto di uno stato precedente la vita. L’esistenza dell’uomo era il culmine di una parabola evolu­tiva che si era differenziata dai vegetali, si era specializzata negli artropodi e si era infine arricchita nella fase evolutiva nei verte­brati. L’uomo racchiudeva in sé la capacità di sposare l’intelligenza con l’istinto e questo matrimonio aveva generato l’intuizione. La struttura sociale dipendeva dallo sviluppo armo­nico delle capacità dell’individuo. Società aperte e tolleranti erano quelle capaci di promuovere l’evoluzione mentale dei loro membri. Le società chiuse invece erano caratterizzate da un insieme complesso di regole e di divieti, da ambiti sociali tesi alla conservazione di sé stessi, piuttosto che a promuovere il cambia­mento e il progresso umano e mentale dell’individuo. Queste idee vennero esposte in un lavoro successivo del 1932, Le due fonti della morale e della religione, che anticipava la visione di Karl Popper del progresso sociale. Nella elaborazione filosofica del pensatore francese l’umanità appariva come una moltitudine in cammino, un insieme di esseri umani capaci di cambiare il mondo evolvendo le loro nature in uno sforzo senza fine. Si trattava di una visione ottimistica, che non rinunciava a interro­garsi sulla complessità del destino umano e sulla necessità per l’uomo di dovere fare i conti con alcuni freni sociali, storici e personali che si trovavano disseminati lungo il cammino esisten­ziale. Bergson morì nel gennaio del 1941, in una Parigi occupa­ta dalle truppe naziste.

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