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giorno dopo giorno

Ci risiamo, come era prevedibile: è successo di nuovo. È successo che ho letto il commento scritto da Antonio Prete su un solo verso (prelevato da una sola poesia, che è stata scritta da un solo poeta e messa dentro una sola raccolta di poesie) e mi è sembrato di aver colto tutto un universo, tutte le poesie di quel poeta, tutta la poesia cui mi sono da decenni, giorno dopo giorno, senza frutto, dedicato. Come se ogni verso fosse il microcosmo di un cosmo cui apparteniamo: ed è così, in effetti, è proprio ed esattamente così. E infatti era già successo, con altri versi di altri poeti, commentati sempre da Antonio Prete.

 

Oggi è toccato a Giovanni Pascoli, di cui parliamo poco, di cui forse (mia impressione) un po’ stupidamente ci vergogniamo anche. Ed è toccato a un verso che tutti abbiamo pure studiato a scuola, il che mi fa ancora più piacere, perché forse sarà ancora più eloquente, parlerà di più, dirà ancora meglio il suo essere microcosmo dentro un cosmo che è anche il nostro.

 

Il verso è questo: «come l’aratro in mezzo alla maggese». Ed è già di per sé singolarissimo che gli unici due sostantivi che si trovano nel verso, in apparenza così semplice, presentato da sempre come molto semplice, siano parole che nessuno studente può capire senza spiegazione; vale a dire parole e oggetti (maggese, aratro) che appartengono a un cosmo che non c’è più, che è scomparso. E però, nonostante questo, il verso funziona ancora, parla ancora, dice ancora della malinconia che lo ha generato. E lo fa oggi grazie alle parole di Antonio Prete, per esempio queste:

 

… tutta la poesia, con la solitudine dell’aratro, la dilatazione metafisica dell’attesa, la relazione profonda tra voci fantasticate e paesaggio, il senso di una lontananza aspra che il gesto e il canto vorrebbero esorcizzare, rappresenta bene uno dei poli della poesia pascoliana: il polo che raccoglie nel verso la condizione di un’esistenza gravata da un cielo chiuso, segnata da un’irrimediabile ferita.

 

Ma visto che ci siamo lasciati, anche stamattina, convincere dalla poesia, avrei un altro testo e un altro poeta (assai meno famosi) da lasciare qui, come briciola sulla mia strada di ogni giorno. Si chiama Simone Consorti, il poeta, e la poesia (che è una poesia scolastica anch’essa, ma in ben altro senso) inizia così:

Come si scrive “Auschwitz”
Dopo il film su Anna Frank i ragazzi
mi chiedono come si scrive “Auschwitz”
un’unica domanda
asettica e ortografica
che non mi crea imbarazzi

 

E poi procede, la poesia, e racconta piccoli dettagli illuminanti ed eloquenti, e ce ne sono anche delle altre, di poesie di Consorti, per esempio questa, in cui si legge così:

Ci vuole immaginazione
per credere nelle rose
ci vuole un bel po’ d’esperienza
per setacciare la realtà dall’apparenza
 

E poi, ultimo ma non ultimo, un libro di altre poesie, tradotte dall’ungherese. Poesie come chiodi, senz’altro; poesie di una scrittrice cui dobbiamo un paio di romanzi folgoranti, che sono sicuramente tra i più belli del secondo Novecento europeo, mi permetto di dirlo. E una poesia, intera, voglio proprio lasciarla qui. Che anche essa sia un microcosmo, il chiodo che fa sanguinare, la ferita irrimediabile cui rimediamo, giorno dopo giorno, con qualche verso e qualche primavera:

Sono tornati i monti della primavera ma ormai
non assomigliano più a nulla in fondo
al lago non c’è altro che melma
 
vengono uomini dietro di loro non c’è nulla
guardano si avvicinano e fanno ritorno
a loro stessi
 
le città lentamente strangolano i loro
gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi
le strade
 
un uccello prova ancora a sollevarsi
risuona qualche parola qualche campana d’allarme
e cadono le pietre

Davide Profumo
Davide Profumo
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