Genetica e ictus ischemico
Domenico Prisco, Gabriele Ciuti
Dipartimento di Area Critica Medico-Chirurgica, Università di Firenze
Che l’ictus ischemico potesse avere un’origine almeno in parte genetica lo si è sospettato da molti anni e una storia familiare positiva per malattia cerebrovascolare è comunemente considerata un fattore di rischio per ictus. Esistono tre tipi di studi di epidemiologia genetica volti a valutare l’associazione fra storia familiare e insorgenza di ictus: studi di popolazione, studi familiari e studi su gemelli.
Negli ultimi anni studi familiari hanno dimostrato un significativo contributo genetico all’ictus ischemico,[Rastenyte D, 1998] e i tassi di concordanza negli studi su gemelli, che danno una stima affidabile di ereditarietà, sono assai più elevati nei gemelli monocoriali che in quelli bicoriali.
Il ruolo dei fattori genetici nell’ictus cerebrale può essere diretto o mediato. Nel primo caso alterazioni genetiche possono essere di per sé legate all’insorgenza dell’ictus, nell’altro i geni possono contribuire all’ictus attraverso fattori di rischio classici o nuovi. Negli ultimi anni questo capitolo ha avuto notevole sviluppo ma le applicazioni cliniche sono ancora limitate.[Tournier-Lasserve E, 2002] In pratica vanno distinti i disordini monogenici che causano l’ictus dalla predisposizione poligenica e multifattoriale all’ictus.
Si conoscono almeno 50 condizioni monogeniche correlate all’ictus. Sono rare condizioni in cui il gene conferisce un alto rischio di malattia al portatore della mutazione. I geni più verosimilmente correlati all’ictus sono quelli alla base delle angiopatie amiloidi autosomiche dominanti (geni APP, CST3 e BRI) e del CADASIL (arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti sottocorticali e leucoencefalopatia; gene NOTCH 3). In tali situazioni sono già disponibili strumenti per la diagnosi molecolare e counselling genetico per la pratica clinica. Ulteriori studi invece sono necessari per precisare meglio le vie che legano genotipo e fenotipo e per sviluppare approcci terapeutici. I pazienti in cui sospettare una di queste forme e dunque potenziali candidati ad uno screening genetico sono pazienti con ictus in età giovanile con assenza dei fattori di rischio classici e con storia familiare importante.[Tournier-Lasserve E, 2002]
Per quanto riguarda invece l’ictus comune esiste un’alta prevalenza ed una eterogeneità fenotipica e genetica. Numerosi alleli che conferiscono un basso rischio di malattia si combinano con effetti additivi e/o moltiplicativi assai complessi. Un approccio utile per scoprire fattori di rischio genetici è stato quello di studiare i fenotipi intermedi come nel caso dello spessore intima-media e la leucoarariosi. I fenotipi intermedi possono essere altamente ereditabili, sono valutabili negli individui con o senza ictus e vengono analizzati come tratti quantitativi. Poiché non vi è una relazione biunivoca tra fenotipi intermedi e ictus ischemico, i polimorfismi o gli aplotipi associati con un intermedio fenotipico dovrebbero essere considerati come fattori di rischio per l’ictus stesso. Un altro tipo di approccio è stato quello di frazionare il fenotipo di ictus ischemico in più sub-fenotipi omologhi; alcuni studi familiari hanno suggerito come alcuni sub-fenotipi come l’ictus cardioembolico possono essere meno ereditabili di altri. [Meschia JF, 2006]
Recenti studi islandesi hanno portato all’identificazione di due “geni dell’ictus” che conferiscono un sostanziale rischio di ictus ischemico. Entrambi i geni codificano per enzimi, la fosfodiesterasi 4D (PDE4D) e la “arachidonate 5-lipoxygenase-activating protein (FLAP)”.[Gretarsdottir S, 2002]. La presenza di tali geni è stata apparentemente confermata non solo nella popolazione islandese ma anche in altre zone dell’Europa e degli USA. Esistono tuttavia studi con risultati contrastanti e attualmente queste conoscenze non hanno applicazione clinica. Nuove ricerche sono necessarie per identificare tutti i geni coinvolti nella suscettibilità all’ictus, per una migliore comprensione delle vie fisiopatologiche e per identificare target terapeutici.
Fra i disordini sistemici genetici che sono stati correlati con l’ictus ischemico vanno ricordati anche disordini del tessuto connettivo, vasculopatie e malattie metaboliche e altri geni verosimilmente correlati all’ictus sono quelli associati con l’infiammazione, il metabolismo lipidico, la coagulazione e la deposizione di matrice extracellulare.
Un capitolo relativamente controverso al momento ma in sviluppo è quello della genetica dei fattori dell’emostasi. Diversi di questi fattori sono stati valutati in studi caso-controllo alla ricerca di un loro ruolo come fattori di rischio per ictus ischemico. Va detto che i risultati degli studi sono stati piuttosto deludenti. L’iniziale speranza che tali fattori potessero contribuire alla spiegazione dello sviluppo di malattie ischemiche cerebrali non è stata soddisfatta e le aspettative legate agli iniziali rapporti di associazioni positive sono state deluse da risultati inconsistenti per quasi tutti i geni studiati. Soltanto il fattore V Leiden e la variante protrombinica potrebbero avere un ruolo come fattori di rischio in sottogruppi particolari di pazienti o in combinazione con fattori di rischio acquisiti.[Lane DA, 2000] Lo studio prospettico Copenhagen City Heart Study ha dimostrato che il polimorfismo C677T dell’MTHFR non è un fattore predittivo di eventi cerebrovascolari ischemici su un totale di 9238 soggetti seguiti per 24 anni.[Frederksen J, 2004]
Le combinazioni di diversi polimorfismi predisponenti all’ictus con fattori di rischio modificabili possono avere effetto sinergico sul rischio globale di ictus ed in particolare nei giovani individui. Un recente studio [Pezzini,2005] ha infatti dimostrato come il rischio di ictus in pazienti con età inferiore a 45 anni aumentava al crescere del numero di polimorfismi presenti contemporaneamente nello stesso paziente. Tale rischio era ancora più alto se il paziente era anche fumatore o iperteso.
Studi caso-controllo di numerosità limitata fanno intravedere prospettive future in relazione a polimorfismi in geni codificanti componenti infiammatorie quali IL-6, MCP-1, ICAM-1, E-selettina e MMP-3, nel gene che codifica la ciclossigenasi 2 (COX-2) e nel gene codificante il peptide natriuretico atriale (ANP) in particolare per il rischio di nuovi eventi nei soggetti portatori della variante all’elica rara del polimorfismo ANP/TC2238.[Flex A, 2004; Cipollone F, 2004; Rubattu S, 2004] Sono necessari ulteriori studi per confermare che alcuni di questi marcatori genetici siano effettivamente fattori di rischio per ictus e stabilire se popolazioni che hanno una maggiore incidenza di questi marker siano da sottoporre a indagini particolari e ad una profilassi primaria più aggressiva. In particolare gli studi dovrebbero specificamente studiare le interazioni fra polimorfismi genetici candidati e fattori di rischio ambientali. Un requisito necessario per tali studi è una numerosità campionaria adeguata e necessariamente molto elevata.
Come abbiamo visto, vi sono molti studi che hanno cercato di identificare geni implicati nell’ictus, tuttavia solo pochi sono riusciti a dimostrare associazioni forti e replicabili con tale patologia. Il motivo risiederebbe in parte nella non corretta progettazione dello studio. E’ necessario quindi tenere conto di alcune considerazioni metodologiche nell’interpretare i dati esistenti e nel pianificare nuove ricerche (tabella 1).
Tabella 1: aspetti metodologici che aumentano la significatività dei dati ottenuti in una ricerca di associazione
Elevata numerosità del campione studiato (sample size)
Rigorosa valutazione fenotipica nei pazienti e nei controlli
Basso tasso di errori di genotipizzazione
Controlli genomici o altre tecniche per stimare la stratificazione della popolazione
Basso valore della p (correzione per test multipli)
Odds ratio o rischio attribuibile elevato
Replica dei risultati in più popolazioni indipendenti
Significato biologico del gene
Influenza significativa dell’allele sull’effetto del gene
Presenza di un effetto dose-risposta del gene
Esistenza di dati funzionali che dimostrino un effetto biologico dell’allele a rischio
Vi sono principalmente 2 approcci per identificare geni patologici: l’analisi di linkage e gli studi di associazione. L’analisi di linkage si basa sulla co-ereditarietà di loci che si trovano vicini l’uno all’altro sullo stesso cromosoma. Di conseguenza negli studi di linkage sono necessari DNA e informazioni cliniche da più familiari. L’analisi di linkage è stata usata con successo nei disordini monogenici come ad esempio il CADASIL [Tournier-Lasserve E, 2002] e recentemente nell’ictus comune [Gretarsdottir S, 2002]. Gli studi di associazione invece paragonano la frequenza di specifiche varianti della sequenza del DNA (alleli) in gruppi di individui in studi caso-controllo. Si dice che un allele è associato alla malattia se la sua frequenza differisce tra casi e controlli più di quello che dovrebbe essere legato al caso.
L’impatto maggiore dell’analisi genetica nella pratica clinica dell’ictus dovrebbe realizzarsi prevenzione secondaria. Considerati i deboli effetti della suscettibilità genetica è comunque improbabile che lo screening genetico sarà usato per stimare il rischio o la prognosi in disordini complessi eccetto che per le malattie di tipo Mendeliano.
Bibliografia
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