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Galileo Galilei (1564­-1642)

Il metodo sperimentale elaborato da Galileo si prestava alla verifica dei fenomeni fisici in situazioni controllate, come nel celebre esempio della caduta dei gravi. In queste circostanze l’abilità matematica di Galileo gli permise di stendere un model­lo fisico­-matematico attendibile di quanto osservato. L’originalità della visione sperimentale di Galileo finì per essere paradossalmente anche e soprattutto di tipo ideologico. Per Galileo non era necessario comprendere la causa finale dei feno­meni naturali. Anzi, lo scienziato doveva stare lontano dall’inve­stigare quello che non poteva descrivere o provare attraverso una formula matematica, per concentrarsi sulla conoscenza pura dei fenomeni naturali, raccontata da un punto di vista meramente quantitativo. Questa era senza dubbio la novità maggiore appor­tata dalla concezione galileiana della scienza. L’obiezione più semplice con cui Galileo dovette confrontarsi fu quella dovuta all’attendibilità di quanto era visibile attraverso il suo telescopio. Lo scienziato pisano utilizzò un argomento pratico: se ciò che vedo ingrandito alla distanza di poche decine di metri corri­sponde a quello che mi viene mostrato dal telescopio, anche la visione degli oggetti lontani come la Luna e gli altri corpi cele­sti doveva essere attendibile. Era un’argomentazione un po’ par­ziale, perché gli strumenti dell’epoca non permettevano di svi­luppare un calcolo veramente efficace e preciso. Su questo punto il Sant’Uffizio ebbe buon gioco a tacciarlo di presunzione e fidu­cia eccessiva nelle sue teorie. Considerando infatti un’ipotesi astronomica di tipo strettamente matematico, il modello cosmo­logico dell’astronomo danese Tycho Brahe (1546­-1601) funzio­nava altrettanto bene di quello copernicano. Brahe aveva formu­lato un’ipotesi cosmologica che contemplava la centralità della Terra, con il Sole che orbitava intorno al nostro pianeta e tutti gli altri astri che a loro volta ruotavano intorno al Sole. Galileo non riuscì a differenziare matematicamente la sua teoria da que­sta. Entrambe erano perfettamente sovrapponibili e parimenti plausibili utilizzando la matematica e la geometria del tempo. Negli anni tra il 1725 ed il 1728, circa un secolo dopo l’abiura di Galileo, un astronomo inglese di nome James Bradley (1693­-1762) scoprì una legge ottica molto importante. Si trattava del fenomeno dell’aberrazione della parallasse o aberrazione della luce. La conoscenza di questo effetto, dovuto all’influenza eser­citata dal moto orbitale della Terra intorno al Sole, permetteva di effettuare calcoli finalmente attendibili sulla distanza dei corpi celesti e cosa ancora più importante, avrebbe consentito di dare una misurazione abbastanza precisa della distanza della Terra dal Sole (circa 150 milioni di Km) e di valutare la sua velo­cità orbitale intorno alla stella. Quella fornita da Bradley costi­tuiva la prima prova ineccepibile della teoria copernicana e la conferma della giustezza dell’ipotesi osservativa galileiana rispetto alle teorie di Tycho Brahe e Tolomeo.

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