
09,5 – III Simposio – Il forame ovale pervio, e poi?, di Pompilio Faggiano
5 Maggio 2016smettere di essere indispensabili
10 Maggio 2016Forse, se vivessi a Roma, oggi deciderei di fare qualche passo distratto in una delle vie vicino al fiume, e poi arriverei in quel museo dove fanno la mostra sul tempo che (forse) passa. Ne ho letto qualche giorno fa, mentre cercavo le parole per dire tutt’altra cosa, e mi è rimasta la sensazione che sia una mostra che possa regalare qualche spunto, qualche idea, forse addirittura qualche pausa. Se ne parla qui:
Strana creatura, strana bestia selvatica, il tempo. Ti vive accanto ma non si fa addomesticare. Cerchi di accarezzarlo e tocchi il vuoto. Più che un fantasma, è come l’uomo invisibile dei fumetti e dei film. Senti che esiste se ci sbatti contro. Perché il tempo non è mai dove dovrebbe essere. Ma c’è. È nelle nuove rughe che ti scopri allo specchio. È negli amici che muoiono: il loro tempo è finito, e ti ricordano che prima a poi tocca a te. Per riconoscerlo, renderne manifesta la presenza, proprio come succede all’uomo invisibile, devi aspettare che il tempo si rivesta. O confezionargli degli abiti apposta: cos’altro sono gli orologi, i calendari, i libri di storia, le iscrizioni sulle lapidi dei cimiteri? Afferrare non lui ma le tracce che il suo transito si lascia alle spalle o disegna nel cielo. È il trucco a cui gli artisti, i più attrezzati forse a dar voce all’invisibile, sono sempre ricorsi.
Però a Roma, probabilmente per mia sfortuna, non ci abito; e quindi alla mostra non ci potrò andare e i passi distratti che ho voglia di fare li dovrò per forza fare altrove. E non potrò nemmeno andare alle pendici dell’Himalaya, come ho letto un po’ di tempo fa che ha fatto un signore indiano con la moglie e un figlio neonato, scappando dalla metropoli in cui lavorava. Sono quelle storie che ci fanno sorridere, ormai; ci diciamo «vabbè» sottovoce, e poi giriamo pagina, cambiamo minuto, distogliamo lo sguardo, passiamo ad altro tempo. Però, forse, in quel «vabbè» c’è qualcosa che proprio bene non va, è possibile. E a volte, se la domenica è magari leggermente più luminosa del solito, ho come la sensazione che il signore indiano delle pendici dell’Himalaya abbia dato al suo tempo un senso che intuiamo, nonostante la pagina girata in fretta, e un po’, spaventati, invidiamo. La storia di Mohit Satyanand è facile, ed è brevemente narrata qui:
Qualche anno fa Mohit Satyanand decise di lasciare il suo lavoro full time per andare a vivere, insieme alla moglie, alla pendici dell’Himalaya. Quando tornò a Delhi perché per il figlioletto era giunta l’ora di andare ascuola, niente fu come prima. Per lui il tempo aveva acquisito un valore diverso e ciò che lo aveva spinto in passato a lasciare la città l’aveva plasmato in modo irreversibile.
E poi ci sarebbero centinaia di canzoni e di romanzi e di poesie che parlano del tempo e delle pause che al tempo, ogni tanto, si possono carpire, come un segreto. Ne conoscete anche voi, è inutile segnalarne una piuttosto che altre, ognuno ha le sue. O almeno lo spero.