BVS in STEMI: lo scenario ideale?
4 Settembre 2015decenza quotidiana
5 Settembre 2015A cura di Stefano Savonitto
Le evidenze a favore di una strategia riperfusiva immediata sono schiaccianti nell’infarto miocardico con ST sopraslivellato (STEMI), e i suoi risultati a lungo termine sono stati ben epigrafati da Robert Califf nell’editoriale di commento al follow-up a 10 anni dello studio GISSI, in cui le curve di sopravvivenza si mantenevano parallele e significativamente diverse fino a 10 anni dalla randomizzazione1: “ten years of benefit for a one-hour intervention”2. Il meccanismo più verosimile per questo durevole beneficio è il risparmio di funzione cardiaca garantito da una riperfusione precoce del miocardio infartuale.
Sembra non essere la stessa cosa per la sindrome coronarica acuta senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEACS), in cui, a giudicare dai dati recentemente pubblicati del follow-up a 10 anni dello studio RITA 33, il guadagno di “un’ ora d’intervento” non si mantiene così a lungo. Gli Autori del lavoro pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology si spingono a dire che forse le Linee Guida dovrebbero essere riviste e che “further trials are warranted”.
Francamente, sono sorpreso da questa reazione degli Autori. Il dato eccezionale, inatteso, era semmai una significativa differenza di mortalità del 24% a cinque anni di follow-up tra il braccio “routine early invasive” e quello “selective invasive”4, un dato non osservato in altri simili studi e nemmeno nelle relative metanalisi5. Più di una plausibile spiegazione esiste per il minor impatto di una strategia sistematicamente invasiva nella NSTEACS.
- In primis, se è vero che il meccanismo primario per il beneficio della riperfusione nello STEMI (la minor perdita di funzione ventricolare sinistra), questo effetto è verosimilmente molto modesto, if any, nella NSTEACS dove raramente l’evento acuto è causa di una significativa perdita di miocardio. Non sono per niente rari i pazienti che perdono 20 e anche 30 punti di frazione d’eiezione ventricolare sinistra a causa di uno STEMI (spesso il primo), mentre ciò è rarissimo a seguito di un NSTEMI.
- In secundis, mentre nello STEMI oltre il 90% dei pazienti sottoposti a coronarografia vanno incontro a rivascolarizzazione immediata, e per di più dell’arteria massimamente colpevole della disfunzione cardiaca, questo non si verifica per la NSTEACS, dove la malattia è spesso multivasale e l’arteria colpevole non sempre chiaramente individuabile, o di importanza non vitale, tanto che solo il 60% circa dei pazienti sottoposti a coronarografia va in contro a rivascolarizzazione. Questo dato è numericamente simile al 60% di riperfusione ottenibile con la fibrinolisi, ma in questo caso si tratta dell’arteria infartuale!
- In tertiis, le caratteristiche basali dei pazienti con NSTEACS sono più gravi di quelle dei pazienti con STEMI, e queste peggiori caratteristiche (età più avanzata, precedente infarto miocardico o scompenso ed estensione della malattia coronarica) sono tutte risultate predittori indipendenti di mortalità a 10 anni nello stesso studio RITA 33: ossia, il destino del paziente NSTEMI è segnato già prima dell’ evento acuto che spesso è solo l’ ultimo di molti eventi silenti o l’ epifenomeno di una malattia già molto avanzata.
Restringendo il campo alla sola NSTEACS, un beneficio importante da un trattamento direttamente invasivo si è visto nei pazienti a maggior rischio identificati in qualsivoglia maniera: troponina positiva, risk score vari, o anche solo l’età avanzata, come nel caso della FIR collaboration (la messa in comune dei database degli studi FRISC II, ICTUS e RITA 3) in cui il beneficio è risultato evidente solo nei pazienti anziani6. Lo studio RITA 3 (ma anche i suoi fratelli FRISC 2 e ICTUS) ha invece arruolato pazienti a rischio basso o intermedio, avendo escluso quelli in cui la presentazione clinica o il quadro angiografico rendevano obbligatoria la rivascolarizzazione. A seguito dell’angiografia, erano esclusi da RITA 3 anche i pazienti in cui una rivascolarizzazione non sarebbe stata possibile o sarebbe risultata inappropriata. Inoltre, solo il 25% dei pazienti avevano elevazione dei biomarker (creatina kinasi o troponina), e solo il 13% erano diabetici. Da un lato quindi lo studio ha giustamente arruolato pazienti candidabili sia all’ opzione medica che alla rivascolarizzazione; dall’altro, sono stati verosimilmente arruolati molti pazienti con angina da sforzo a bassa soglia e coronaropatia critica, ma senza una vera ACS, in cui nessuno studio ha mai dimostrato un vero beneficio della rivascolarizzazione in termini di mortalità. Questo è anche dimostrato dalla bassa mortalità globale, circa 2.5% a un anno, a dispetto del 9% a sei mesi registrato in oltre la metà dei pazienti arruolati nel U.K. Myocardial Ischaemia National Audit Project registry7, o al 15% a un anno osservato nell’Italian Elderly ACS trial8 in cui i pazienti erano arruolati prima di eseguire l’ angiografia.
Come considerare i dati di questo importante lavoro nel contesto della pratica clinica attuale nel nostro paese in cui la coronarografia viene eseguita a scopo diagnostico nella stragrande maggioranza dei pazienti con NSTEACS in maniera indipendente dal quadro clinico e come guida per le successive decisioni terapeutiche? Io credo che l’approccio sviluppato in questi anni di concentrare le energie sulla diagnostica rapida della malattia coronarica nei pazienti con NSTEACS e, laddove possibile, rivascolarizzare il miocardio a rischio, abbia portato a benefici significativi, come dimostrato dall’analisi seriata dei registri ANMCO focalizzata sui pazienti anziani9, e su altre categorie ad alto rischio, come i pazienti in shock cardiogeno10. In queste due categorie paradigmatiche, l’aumento della strategia “early aggressive” è stato associato a un dimezzamento della mortalità a 30 giorni. Ulteriori benefici, rispetto ai tempi in cui è stato effettuato lo studio RITA 3, sono ipotizzabili da una prevenzione secondaria del reinfarto dopo ACS, come dimostrato dagli studi con clopidogrel e suoi successori, tutti non disponibili ai tempi dello studio RITA 3.
Anche una scelta tra rivascolarizzazione percutanea e chirurgica che tenga in maggiore considerazione l’efficacia a lungo termine, specialmente nei pazienti multivasali, ha un potenziale di un più duraturo miglioramento della prognosi. Si parla molto di heart team per quando riguarda le cardiopatie strutturali, ma i dati della letteratura e la mia personale esperienza concordano sul punto che negare ideologicamente ai pazienti multivasali l’opzione della rivascolarizzazione chirurgica arteriosa sia penalizzante per la prognosi a lungo termine.
In conclusione, i pazienti con NSTEACS sono una popolazione molto eterogenea che, come preconizzato dalla originale classificazione di Braunwald11 spazia dalle forme in crescendo dell’angina da sforzo, alle forme più severe con malattia multivasale e shock cardiogeno. La coronarografia si è dimostrata un insostituibile strumento diagnostico, sia nei casi dubbi che in quelli eclatanti: chiunque si confronti quotidianamente con questi pazienti sa bene che i riscontri inattesi sono all’ ordine del giorno. Nonostante l’atteggiamento dogmatico delle Linee Guida sull’urgenza della diagnosi, il tempo sembra essere molto meno importante che nello STEMI, sebbene il ritardo diagnostico, a mio parere, esponga a inutili pasticci farmacologici non privi di rischi. I benefici principali di un approccio early aggressive sono da ricercarsi nella più veloce e precisa definizione diagnostica, e nella prevenzione delle recidive infartuali, dato concorde in tutti i trial randomizzati. Lo studio RITA 3 era stato l’unico a dimostrare una riduzione di mortalità a 5 anni. Quale terapia ha mai mostrato tanto, se non quella dello STEMI e le fortunate eradicazioni chirurgiche o farmacologiche di alcune neoplasie? Gridare allo scandalo (“revisitation of guidelines & new studies warranted”) mi sembra veramente eccessivo.
Nemmeno Nostro Signore Gesù Cristo gridando a Lazzaro “vieni fuori” ha preteso di dare l’immortalità con un solo gesto.
BIBLIOGRAFIA
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- Braunwald E. Unstable angina. A classification. Circulation 1989;80:410-4.
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