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essere vivi

L’opera letteraria che amo di più parla di morti. In realtà, a essere precisi, quell’opera letteraria che amo più delle altre, che è la Commedia di Dante, finge di parlare di morti per parlare del viaggio di liberazione di un uomo vivo in cui tutti gli altri uomini vivi possano riconoscere il loro stesso viaggio, alla ricerca della loro stessa liberazione. Ma non è questo il punto. Il punto che mi interessa oggi è che l’opera letteraria che amo di più prevede la presenza di un uomo vivo, ritto in piedi davanti a una serie di esseri umani morti, nudi, giudicati da Dio.

Ho pensato a questa situazione letteraria qualche giorno fa, quando Massimo Mantellini ha voluto citare Elias Canetti per commentare l’urgenza (il desiderio? il turbamento? il rifiuto?) che alcuni di noi hanno sentito di fronte alla possibilità di guardare il video della tragedia della funivia del Mottarone. Le parole di Canetti (uno dei tre o quattro scrittori che hanno più segnato la mia lontana adolescenza) mi sono sembrate terribili, mi hanno posto degli interrogativi a cui non ho saputo dare risposta, mi hanno messo di fronte all’essenza stessa della «tragedia». Per esempio queste parole:

Chi guarda sta in piedi, indenne, incolume; il morto può essere un nemico ucciso o un amico venuto a mancare: in ambedue i casi sembra d’improvviso che la morte da cui eravamo minacciati si sia stornata da noi su di lui. È questa la sensazione che, rapidissima, ha il sopravvento: ciò che dapprima era terrore trapassa in soddisfazione. Colui che sta ritto, per il quale tutto è ancora possibile, ora è più che mai consapevole di stare in piedi sulle proprie gambe. Non c’è istante in cui si senta meglio nella posizione eretta.

Chi assiste al terrore del male e ne sopravvive (lo sapevano i greci quando si sedevano sui gradini di pietra dei loro teatri, lo sapevano i nostri antenati che sacrificavano i più innocenti sugli altari degli dei primitivi) esce purificato da quell’incontro: sa che il male è stato destinato ad altri, sa di essere fragile ma vivo.

Ma subito, appena lette le parole di Canetti, ho pensato a un altro incontro con la morte, ad altra letteratura. Ho pensato all’inquietante pagina finale del romanzo La casa in collina di Cesare Pavese. Anche Pavese è stato uno degli scrittori che hanno indelebilmente segnato la mia lontana adolescenza; e anche lui ha raccontato l’incontro con un morto. In questo caso un morto nemico, fascista, un morto che da vivo era stato odiato e che ora giace lì, morto, e ci assomiglia. La pagina la trovate qui; ma questo passaggio potrebbe pure bastarvi a capire che già nel 1947 si potevano scrivere righe così, sulla guerra appena finita:

Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitato sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.

Quando ho letto il passo di Elias Canetti citato da Mantellini, ho pensato che Pavese aveva scritto l’esatto contrario. Ora rileggo entrambi i passi e non lo so più. Mi chiedo se non sia piuttosto un modo diverso per dire la stessa cosa. E mi chiedo anche, sinceramente dubbioso, che cosa sia questa cosa che Pavese e Canetti e Dante e i greci e finanche gli uomini primitivi cercavano di dirsi.

Che esiste la morte, probabilmente. Che è un destino che ci appartiene, anche se vogliamo dimenticarla, anche se siamo innocenti. Mi viene in mente che Canetti ha dichiarato il suo odio per la morte in ogni pagina che ha scritto: il suo vero e proprio rifiuto della morte. Mentre Cesare Pavese si è suicidato: l’ha cercata e voluta, la morte, come se fosse una salvezza definitiva. Forse sta qui la differenza. Forse, ma non ne sono sicuro, è nel momento in cui siamo in piedi davanti a un nostro simile che è morto (al posto nostro) che incontriamo la nostra insignificanza e ne chiediamo ragione ai morti e a noi stessi.

Davide Profumo
Davide Profumo
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