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19 Aprile 2016
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19 Aprile 2016Oggi mi pare di avere letto almeno tre articoli interessanti in rete (e non dico «belli», non oggi, perché non sono mica belli, secondo me, questi articoli… Uno, quello su Eco, perché non aspira nemmeno a esserlo, io credo; gli altri perché vi aspirano troppo, a mio parere; ma è solo un parere, da prendere e buttar via, come è ovvio).
Due di questi articoli interessanti che ho letto in rete oggi citano Pier Paolo Pasolini, e voi sapete quanto questo nome (se non è associato alle parole che lui stesso ha scritto) sia pericoloso e pure un po’ perverso, sia come un marchio a cui si associa tutto e il contrario di tutto, apocalisse e post-apocalisse e anti-apocalisse, con una spavalda faciloneria che io ho sempre trovato un po’ imbarazzante (per le pagine scritte da Pasolini, soprattutto, quelle che forse non leggiamo da tanto – troppo – tempo).
Il primo di questi articoli, addirittura, mette la parola «pasolini» nel titolo, figuratevi. E poi, però, parla di altro; e, pensate un po’, non cita mai, nemmeno una volta, Pasolini nel testo dell’articolo, come se bastasse la suggestione (cita Debord, però, che ci si fa sempre una propria figura…), come se «pasolini» fosse un condimento, un gusto leggero che male non ci sta. Infatti l’articolo parla di un centro commerciale lombardo (il più grande centro commerciale d’Europa) e di quello che vi è accaduto il giorno della sua apertura. Io l’ho trovato interessante, anche se non sempre convincente; ve ne lascio un assaggio, se aveste voglia di proseguire; e forse voi potrete anche capire che cosa c’entra Pasolini e perché (io, francamente, non l’ho capito).
Nella percezione comune, i centri commerciali sono spesso considerati dei non-luoghi – degli spazi che non sono identitari, relazionali e storici, luoghi in cui non si creano veri rapporti sociali ma si espletano solamente riti di consumo. Spesso è effettivamente così, ma ho sempre ritenuto questa analisi semplicistica, perché non tiene conto del contesto in cui i centri commerciali si inseriscono. Il quartiere periferico dove sono nato e cresciuto, ad esempio, contiene un centro commerciale e da quello prende il nome, ma nella mia esperienza il Bonola non è mai stato un non-luogo. È sempre stato, se mai, tutto l’opposto: il posto in cui si andava a fare la spesa ma anche la sede della biblioteca in cui si andava a studiare e – dato che c’era l’aria condizionata – il posto in cui ci si ritrovava d’estate. Era insomma un luogo vero e proprio, in parte dedicato al consumo e in parte alla socialità.
Insomma, se è vero che i centri commerciali hanno tutte le caratteristiche dei non-luoghi, il fatto che lo diventino o meno dipende dal contesto in cui sorgono e dal modo in cui le persone vi si rapportano.
Il secondo articolo parla invece proprio di Pasolini «pasolini» non della metafora «pasolini» (meno male). Dice alcune cose molto condivisibili, come per esempio quella che gli fa da titolo e anche questa, secondo me:
Accettare Pasolini vuol dire emendarlo da provocazioni e trasgressioni, da quell’immagine che ha fatto comodo a tutti, ed emendarlo anche dal complottismo della sua morte, che è diventato un legittimo bisogno di sapere la verità ma anche un cappio intellettuale. Pasolini era la morte di Pasolini. Come pochi anni dopo tutta la carriera e l’attività politica di Aldo Moro non era diventata altro che i 55 giorni di prigionia e il cadavere in via Caetani.
Che la morte di Pasolini fu un complotto non è difficile pensarlo. Ma l’idroscalo non fu il finale di un romanzo che Pasolini non ha fatto in tempo a scrivere, o la scena che non ha mai potuto girare. Ma è la fine di un uomo che aveva ancora mille progetti e non voleva farsi ammazzare per assolverci dalle nostre colpe.
A cui poi aggiunge anche quest’altra cosa, che forse nega la precedente e magari lo fa con quel filo di lirismo di cui ho imparato a diffidare, quando si parla di Pasolini «pasolini» (alle metafore invece va perdonato tutto, si sa: sono metafore e perciò innocue, così si dice) (e comunque l’articolo intero lo trovate qui):
Da anni leggiamo Pasolini e non sappiamo deciderci se fosse lucido o visionario. Se sapesse capire attraverso il distacco e la distanza, o se invece attraverso la passione e le ferite dell’anima. Non sappiamo dirci quanto le sue poesie, meravigliose, soprattutto quelle friulane, gli risuonassero nella testa mentre cercava tra la la stazione Termini e piazza Esedra i ragazzi di vita, per strapparsi di dosso quell’eleganza formale e intellettuale e trasformarla in disperata vitalità, come l’avrebbe chiamata lui.
Non sappiamo decidere, in questo paese irrisolto e demagogico, se Pasolini fosse martire e santo, con tutte le sue reliquie che portiamo con noi sotto forma di film, di libri, di parole, o se invece dobbiamo spargere le sue ceneri un po’ più in là, magari su quel mare di Ostia dove è andato a morire assassinato.
Il terzo articolo invece (e per fortuna, direte voi) non parla più di Pasolini ma di Umberto Eco (un altro che rischia – anzi, io ci scommetto proprio – di diventare la metafora di se stesso, c’è da giurarci, con i fumetti e Mike Bongiorno e quel cognome poi…). E ne parla proprio a proposito della rete internet e della funzione che ha e che avrebbe avuto secondo Eco nel 2000 (e che ancora, però, forse, deve guadagnarsi). Lo ha scritto Luca De Biase e a me è molto piaciuto. Inizia così, ve lo consiglio, se non siete stanchi di metafore:
I partecipanti all’evento organizzato dallo Smau intervistavano Umberto Eco chiedendogli un po’ di serenità intellettuale di fronte all’apparente caos culturale che Internet sembrava generare. E il professore dimostrava che la bellezza, la rozzezza, la criminalità sono tratti tipici degli esseri umani non specifici della rete. “Internet ha una grandissima utilità. Non solo per la mail. Lontano dalla mia biblioteca (30 mila libri, ndr.) la Rete risponde alle mie esigenze in modo preciso. Questa estate ci ho trovato tutti gli atti del concilio di Nicea”. Esigenza non tipica, ma risultato notevole. Gli chiedono se sia meglio della tv: “I contenuti della televisione sono decisi dalla pubblicità. Su Internet c’è la massima libertà: pubblicare in Rete non costa molto e chiunque può contribuire con quello che vuole”. Con conseguenze sia positive che negative…
2 Comments
Su Pasolini (e sui centri commerciali) non commento perché non saprei cosa dire.
Su Eco – che poi era tornato su quel tema – invece qualcosa posso dire. In linea di principio la sua proposta è sensata, e si può affiancare a quella dei corpora specifici scritti e revisionati dagli addetti ai lavori – parlavo (bene) della Stanford Encyclopedia of Philosophy a http://www.wikimedia.it/la-stanford-encyclopedia-of-philosophy-wikipedia/ .
All’atto pratico c’è un problema. Come fidarsi di chi dà un bollino di qualità? Già c’è semplicemente troppo materiale disponibile, e quindi buona parte di esso non verrà comunque mai valutato. Poi perché una persona dovrebbe dedicare il suo tempo a valutare quello che si trova in giro? Il giudizio della Chiesa sui film aveva un senso dal punto di vista della Chiesa 🙂
La tua obiezione è più che sensata e forse nel 2000 era impossibile pensare al web e soprattutto ai social come li viviamo ora. In qualche modo l’opera di selezione viene fatta, almeno sul 2.0, dalle persone che ognuno di noi ha scelto di frequentare in rete e che linkano (e quindi selezionano, in un modo o nell’altro, per quanto barbaro sia…) o commentano ciò che a loro pare più affidabile e sensato. Che poi, nella grandissima parte dei casi, i frequentatori del web non siano in grado di valutare i contenuti del web e quindi neppure di selezionarli, non è un problema di cui si può fare carico la rete (se non in minima parte).