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12 Febbraio 2019una lontanissima voce
17 Febbraio 2019Avevo messo da parte (in realtà no: le avevo inserite tra i segnalibri del mio browser…), qualche giorno fa, alcune righe scritte da Vanni Santoni sulla letteratura di Jorge Luis Borges. Lo avevo fatto pensando che una mattina mi sarebbero tornate in testa, che sicuramente avrei avuto modo e desiderio di rileggerle, che senza dubbio mi stavano dicendo qualcosa che in quel momento non capivo ma non avevo intenzione di ignorare. E la mattina è stato oggi, infatti.
Ho ripreso in mano (in realtà no: ho rimesso sul mio schermo…) le righe di Santoni, le ho rilette, ho pensato che dicessero in qualche modo e misura la «cosa» con cui mi sono svegliato in piena notte e che non riuscivo a decifrare, la cosa che mi ha accompagnato per le stanze buie di casa mia , senza che potessi darle un nome, la cosa che mi ha tenuto sveglio ad aspettare che la luce filtrasse dalle imposte, senza che io sapessi nemmeno provare a dirla.
Vanni Santoni ha scritto infatti un bell’articolo, breve e intenso, su Borges e sull’importanza della sua opera letteraria nel secondo Novecento. Ed è questo suo articolo il mio invito alla lettura di oggi. Inizia così, con una piccola confessione, come spesso iniziano le belle cose:
Si dice che prima o poi si entri in un’età della vita in cui le riletture superano le letture, e mentre sento che mi sto avvicinando a quel momento mi scopro a rileggere, tra gli altri, Borges. Di per sé non ci sarebbe nulla di strano, essendo l’argentino uno dei maggiori autori del Novecento, ma il fatto è che ricordo bene come, una quindicina d’anni fa, quando la mia produzione letteraria si limitava a qualche racconto su una rivista autoprodotta che proprio Jorge Luis Borges aveva tra i suoi numi, dissi ai miei amici e compagni di strada che era necessario “lasciarsi dietro Borges”. Sparata da autor giovane in osteria, certo. Sensata, al massimo, se letta nel senso di superare le prime influenze e cercarne di nuove. Ma comunque una sciocchezza.
E poi procede e va avanti e dice a un certo punto così:
Borges ha anche narrativizzato la metafisica; ha rotto i confini tra discorso e metadiscorso (e quindi tra testo narrativo e critica); ha nobilitato il fantastico […] ; ci ha ricordato che tutto è rappresentazione (e quindi finzione); ci ha mostrato che nulla è nuovo e quindi tutto è a suo modo citazione (ecco un altro paradosso borgesiano: insegnare che nulla è nuovo attraverso i testi più originali della sua epoca); ha infine creato le basi di una letteratura che si confronta con la più moderna delle preoccupazioni: quella di un mondo che si scopre infinito (in tutte le direzioni: dall’infinitamente grande del cosmo all’infinitamente piccolo delle particelle) e che non ha più un Dio a cui appoggiarsi per controllare tale vertigine. Con Borges, la letteratura si fa carico dei compiti che furono della dottrina, e ci insegna a non aver paura di quest’infinità (né di maya, ovvero della natura fondamentalmente illusoria di ogni cosa), rendendo possibile anche a un bambino il guardarci dentro e il riconoscere nelle sue molte forme – biblioteca, Aleph, Zohar, labirinto, libro di sabbia, tempo, fuga di specchi o di doppi – i semi del meraviglioso.
E mentre rileggevo queste righe, ho pensato che ci sono altre poesie di cui volevo parlare oggi, e che la «cosa» che mi ha tenuto sveglio aveva a che fare pure con quelle, con le poesie che mi tornano in mente a tradimento, mentre dovrei e vorrei dormire, che c’è una segreta parentela tra versi e insonnia. E ho pensato alle belle poesie di Alba Donati, le tengo sul mio comodino da un po’ di settimane, ogni tanto ne leggo qualcuna, non tanto spesso quanto vorrei, sono pigro, sono sempre stato troppo pigro, ma ci sono pochi bellissimi versi citati in un articolo che ne parla proprio oggi sul web, che io non avevo mai nemmeno notato nelle mie troppo indolenti letture, i quali hanno senz’altro a che fare anche con me e con Borges e con la «cosa» che mi ha tenuto un po’ più sveglio del solito stanotte. Eccoli:
Devo tutte le mie poesie
ad altre poesie
al vuoto che ha fatto in me
la parola di qualcun altro
E mentre scrivevo tutto questo, mi è anche tornato in mente il verso che forse mi aveva svegliato all’improvviso, la parola d’altri che aveva in me fatto il vuoto, mentre cercavo semplicemente di non sapere più nulla, come tutte le notti. È un verso di Vittorio Sereni, poi diventato un verso di Franco Fortini, poi tornato ad essere un verso di Sereni. Recita così: «Esile mito tra le schiere dei bruti». Non credo che Sereni intendesse la poesia, e nemmeno Fortini; non credo che nessuno dei due potesse pensare alla letteratura di Borges. Ma oggi forse possiamo pensare che la poesia e la letteratura (anche quelle di Borges) siano esattamente ciò che questo verso diceva: un esile mito, in mezzo al mondo.