due storie
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buon compleanno
21 Febbraio 2017

esercizi di domenicale silenzio

Come a volte mi accade, soprattutto di domenica, ho molta voglia di riportare in questa pagina virtuale due poesie, di due autori lontani tra loro e però contemporanei a noi, e quindi vicini. Lo faccio, anche se ci sono altri temi che urgerebbero e a cui forse dovrei dedicarmi alla svelta, prima che scompaiano lasciando la traccia che le cose non dette lasciano sempre nel mio animo, che non è una traccia piacevole, ve lo assicuro.

 

La prima poesia, lo ammetto, mi serve soprattutto per segnalarvi le storie che Loredana Lipperini sta in questi mesi, con splendida ostinazione, raccontando dai borghi dell’Italia centrale martoriata dal terremoto. È una bella poesia di Mariangela Gualtieri (grande poetessa, capace di acuti poetici taglienti e unici) che parla di traslochi, di luoghi che abbandoniamo o che ci abbandonano, è una delle mille varianti possibili del manzoniano addio ai monti… Ed è soprattutto un modo che ho per non dimenticarmi, anche se non serve a niente, del fatto che c’è chi se ne va per scelta e che invece se ne va perché costretto, e dev’essere terribile, tanto che nemmeno riesco a immaginarlo. Lo fa, al mio posto, la poesia, che si intitola Esercizio del trasloco:

 

Il tempo qui non è stato
che un pezzo di cartone,
un sobbalzo. La porta
si chiude per l’ultima volta.
Il fascio di forze domestiche
il genio del luogo
saluto ora con ringraziamento.
A tutto ciò che tace perfettamente
e che sempre qui dentro ha taciuto
a ciò che non appare
in questa casa vuota
e resta come in larga attesa.
A questo punto del mondo, alto sulla città vecchia
a questa cuccia di luce e conforto
in cui abbiamo amato meglio che potevamo
e dormito bene nella sua pace
e fatto tutte le cose umane
delle vite, al mio cuore
senza tristezza che tutto saluta
contento, come esercizio
di distaccamento, come grande
scuola del trasloco e del suo lasciare la presa.
Vi lascio, cose.
Il vostro mancarmi sia la melodia
che ora mi guida:
La schiena liberata dal peso
stia dritta in attesa
della più alta impresa.
Il bastarmi del poco e del niente che serve.
E il resto sia vuoto. Sia intesa
con tutto ciò che non pesa.

La seconda poesia è un testo di Heaney, tradotto in italiano da Roberto Mussapi. Parla di un buio da cui sprizzano scintille, di un fabbro interiore (il dantesco «miglior fabbro»? Non lo so…) che modella sillabe e parole, che cerca in qualche modo di sconfiggere il buio che è anche silenzio, che è naturalmente fisico e insieme metafisico, un silenzio che è mistero insondabile, eppure costantemente sondato. È una bella poesia, insomma, che si intitola La fucina:

 

Tutto ciò che conosco è una porta sul buio.
Fuori vecchie assi e cerchi di ferro arrugginiti,
dentro il timbro acuto dell’incudine martellata,
l’improvvisa sventagliata di scintille
o il fischio di un nuovo ferro che si forgia nell’acqua.
L’incudine deve essere da qualche parte al centro,
cornuta come un unicorno, quadrata
da una parte e inamovibile: un altare
dove lui si consuma in forma e musica.
A volte, col grembiule di cuoio, i peli nel naso,
appare allo stipite, riscopre il rumore
di zoccoli in movimento tumultuoso,
poi sbuffa e rientra, sbatte e schiocca,
per tirar fuori con forza il vero ferro, lavorare ai mantici.
 

E quindi, alla fine, anche oggi non vi ho parlato di una paio di libri che sto leggendo e che penso valgano una segnalazione (lo farò, prima o poi); e nemmeno di un fatto di cronaca per cui Roberto Alajmo spende alcune parole sagge (qui); e neppure del concetto di post-vero che mi sta molto a cuore (farò anche questo); e nemmeno di un piccolo gioiello sul silenzio di Dio che una voce tra le più acute del web mi ha regalato in questi giorni (qui). Anche oggi, come a volte accade la domenica, ci teniamo strette due poesie, sapendo che non è comunque poco.

Davide Profumo
Davide Profumo
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