Sopravvivenza a lungo termine e predittori pre-procedurali di mortalità nei pazienti ad alto rischio trattati con impianto di Mitraclip
4 Giugno 2016un isolamento
7 Giugno 2016Non so quasi niente di Franco Arminio. Ricordavo una poesia letta in televisione da Roberto Saviano, qualche anno fa, ma sono dovuto andare a controllare sul web, che fosse proprio lui, che la poesia fosse proprio quella, che il terremoto fosse proprio quello che mi ricordavo. E l’ho fatto subito, di andare a controllare, perché oggi ho letto una pagina scritta da Arminio e sono rimasto senza fiato. Ho pensato subito a Omero e all’epica classica, ho pensato a Penelope e a Itaca, al racconto dantesco di un Ulisse impaziente, incapace di placarsi nella sua isola di pietra, ho pensato alla fatica del ritorno (anche a quella dei miei ritorni: è così, la letteratura ci parla di quello che siamo, anche se non vorremmo…), ho ripensato a vecchie città e ad altri luoghi che per destino o per scelta mi appartengono e a cui apparteniamo, perché è inevitabile, perché farne a meno è fatica inutile.
Insomma, ho letto stamattina un brano scritto da Franco Arminio e l’ho trovato straordinario, bellissimo, intenso, pieno di una forza che non so nemmeno definire; e poi ho ritrovato sue tracce in altri luoghi e in altri libri, ho deciso che le seguirò, con pazienza, nei giorni futuri, cercando qualcosa che in questo momento non so cosa sia.
[E pensare che avrei davvero voluto parlarvi di epica, stamattina: ma citando Muhammad Ali, e l’unica epica in cui ormai siamo capaci di riconoscerci, che è quella sportiva, di cui Ali è stato senz’altro protagonista indiscusso e indiscutibile… Volevo parlarne davvero e invece non lo farò, perché ho letto Arminio e la sua epica odissiaca del ritorno impossibile e della fuga, e anche perché di Muhammad Ali avrete senz’altro già letto moltissime cose più belle di quelle che potrei scrivervi o segnalarvi io. Meglio così, quindi, secondo me.]
E allora, la pagina di Arminio è questa, da leggere con calma, a mente quanto più possibile serena, davanti alla mattina limpida, senza impazienza. E il brano da cui scelgo di partire è proprio l’incipit, questo qui:
Non importa che torno sempre qui dai miei giri, il mio rapporto con questo paese non c’è più. Il paese non aspetta il mio ritorno, non ha una casella per me, non sa dove mettermi e io non so dove mettermi. Sto in casa e quando esco parlo al telefono, non parlo col paese. Quando non parlo al telefono cammino alla larga, sul bordo. Il paese forse è ancora vivo in me, ma io non vivo più nel paese. Forse la mia paura di cadere a terra morto non è altro che la paura della mia casa sospesa sull’orlo della frana. Io ho pensato che la paura fosse di mia madre, invece è la casa che ha paura. I cani la notte quando abbaiano sembrano volerla tirare giù. La mia vita nel mondo prosegue attraverso le mie parole. Vado in giro a dire cose sul mondo e sui paesi, ma io non sono più una persona del mio paese. Forse non sono più nemmeno una persona e quando sono una persona sono un fastidio, la mia ansia non la sopporto più nemmeno io, non posso pensare che la sopportino gli altri. E forse cominciano ad essere insopportabili anche le mie parole. Ogni vita si squaglia a un certo punto o si aggroviglia, comunque prende una sua via fallimentare. Anche le vite attente, le vite buone, comunque non risolvono niente.
Non risolve niente il successo e neppure la sventura. Si consumano anche i nostri vizi, non ha più ragione di esistere la nostra malattia e neppure ha senso guarire. La vita al mio paese ormai può essere solo quella di un passeggiatore solitario. La poesia finisce sempre nel nulla, almeno per chi la scrive. A me poi succede che il dolore quasi mi ravviva, questo nulla in cui mi trovo non è che mi fa più paura delle cose che sembrano riuscite, un libro, un amore.
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