la quarantesima pagina
23 Settembre 2016Andrea Vesalio (Andreas van Wesel 1514-1564)
30 Settembre 2016Non amo, non so perché, ricorrenze e anniversari. Soprattutto quando si tratta di libri, di scrittori, di centenari e bicentenari, me ne sfugge il rilievo, mi lascia indifferente il loro accavallarsi e trascorrere; e non ho mai voglia di parlare troppo di celebrazioni culturali, a meno che non ci sia qualcosa che mi sorprenda e che abbia, ovviamente, a che fare più con il presente celebrante che non con la ricorrenza celebrata.
Ma oggi (a dire subito che anche in amore ci sono eccezioni che vanno ben al di là delle regole), oggi mi pare doveroso dedicarmi a due anniversari, che (mi pare) dicono due cose ben diverse sul presente che ci troviamo a vivere. E cioè, in concreto, il primo dice che il tempo non passa come noi crediamo e le cose non cambiano mai davvero così tanto come ci sembra; mentre il secondo dice che il tempo passa più velocemente di quello che a noi pare e che le cose cambiano assai più rapidamente di quanto noi, immersi nel loro flusso quotidiano, possiamo percepire.
Il primo anniversario (e ne abbiamo anche già parlato) riguarda uno dei più grandi poemi della storia letteraria terrestre: cinquecento anni fa, infatti, fu pubblicato in prima edizione l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto. E ieri, a Ferrara, è stata inaugurata una mostra che vuole celebrare questo importante anniversario; e le righe che Luigi Mascheroni ha dedicato a questa mostra e a quel poema sono, parere mio, righe bellissime, che ci dicono come e quanto il poema di Ariosto sappia parlare di noi e del nostro presente, giacché cinquecento anni su questo pianeta sono poco più che un battito di ciglia, come sa la polvere:
Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi. Bella domanda. A cosa pensava Ludovico Ariosto, chiudendo gli occhi e aprendo il suo manoscritto, quando si accingeva a narrare una battaglia, o a descrivere la bellezza di Angelica, o a sognare il paesaggio lunare del viaggio di Astolfo? Forse avrà visto – eccole appese qui – la Battaglia di dieci uomini nudi incisa su rame dal Pollaiolo o la Battaglia fantastica con cavalli e elefanti disegnata da Leonardo da Vinci Magari ebbe come musa la fascinosa Venere pudica di Botticelli, un modello di perfezione femminile per un’intera epoca: è appesa proprio lì […]
Il mondo si rispecchia nel poema e il poema riflette il mondo. C’è la battaglia di Roncisvalle immortalata su un gigantesco arazzo proveniente dal Victoria and Albert Museum. C’è una gigantesca mappa geografica del Nuovo Mondo, del 1501, che Ariosto vide alla corte degli Estensi e che saccheggiò per alimentare il suo senso del meraviglioso. […]
Del resto tutti noi, ieri come ora, siamo mossi, com’è mosso l’intero Orlando furioso, da un unico motore: il desiderio. Il desiderio -che ci rende pazzi- di ottenere fama, amore, gloria, potere. Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori… Il fatto è che -proprio come capita entrando e uscendo dalle sale della mostra- nessuno trova mai quello che vuole, e tutti si imbattono in qualcosa che non cercano. E questa si chiama vita.
La seconda ricorrenza (non è proprio un anniversario: ho un po’ mentito all’inizio del post, per esigenze di copione, diciamo così…) riguarda invece Harry Potter: siamo sempre nell’ambito del “meraviglioso”, insomma, come era stato per Ludovico Ariosto. Ne parla oggi Arianna Giorgia Bonazzi in un articolo che addirittura si riferisce a un’intera “generazione Harry Potter”. E a un certo punto, quasi all’inizio della sua disamina, Bonazzi scrive queste righe, che mi sono sembrate assai indicative del tempo che ci è stato dato in sorte e di come rapidamente sia mutato questo tempo, lasciandoci un po’ smarriti e parecchio invecchiati a ripensarlo e a cercare di comprenderlo:
La cosa più sorprendente della permanenza dell’universo Harry Potter nell’immaginario globale non è tanto il dato assoluto della longevità di quello che è ormai un classico contemporaneo, ma il dato relativo rispetto a quanto è cambiato il mercato dell’intrattenimento per bambini da Harry Potter e la pietra filosofale a oggi. Nel 1998, in Italia, c’era, tanto per rendere l’idea dell’abisso, Telepiù, che puntava sul cinema d’autore, mica sul bouquet con ventotto canali per bambini. I potenziali lettori della Rowling avevano a disposizione poche ore di cartoni animati al giorno, guardavano mestamente Art Attack e giocavano al Game Boy. Nel primo decennio del Duemila, che ha visto l’uscita di quattro dei sette libri della saga, la Disney acquistava la Pixar, e i ragazzini vivevano di quello, e di Nintendo Ds e Playstation Portable.
E potrei anche chiudere qui, insomma. Lasciando a voi tre o quattro lettori la conclusione possibile da tirare, a proposito di due libri così diversi e del tempo che sanno raccontare e smuovere. Ma c’è invece un’altra cosa che ho urgenza di raccontare e segnalare: un addio. Che secondo me ha molto a che fare con le tracce che il tempo lascia su di noi e sui segni che noi cerchiamo di lasciare sul tempo che passa, come Ariosto, forse anche come Harry Potter (anche se non lo so: io ero già vecchio quando uscirono i libri del maghetto, la mia generazione ha un altro nome, probabilmente, ma io non conosco quale sia…).
L’addio che vi lascio è uno struggente addio parigino scritto da Raffaello Rossi, un ricercatore italiano espatriato e poi tornato a casa, in Italia. E il suo racconto della partenza dalla città francese è quanto di più perfetto io abbia trovato oggi per dire del tempo che passa e che contemporaneamente si rifiuta di passare, perché abitandolo lo imprigioniamo, in qualche modo che non sappiamo quale sia, come nemmeno lo sapeva Ariosto, che infatti nel suo poema di mezzo millennio fa fingeva di fare il giro del mondo ma era sempre lì, a casa sua, a guardare l’immutabile cielo della sua Ferrara. Il brano di Rossi inizia così:
Sto partendo. Da alcuni giorni mi dedico anima e corpo a un lavoro che eseguirò necessariamente in modo imperfetto: la cancellazione delle mie tracce da quella che, nella finzione superficiale di conversazioni scritte o parlate, da circa un anno chiamavo «chez moi», «casa mia», «home». […] Normalmente si cerca di dare un senso a simili strappi dicendoci que qualcosa si chiude e ne comincia un’altra: un capitolo, una fase, un’“esperienza vissuta”. La verità è che nessuna di queste espressioni può mai esser riferita a un oggetto ben preciso, se non a un’illusione: nella realtà non esistono i bilanci esistenziali o i progetti per il futuro. Per me comunque non si dà tempo per nessuna di queste cose: solo il presente si manifesta, nella necessità di pulire, aggiustare, togliere di mezzo le cose che mi appartengono prima di poter rimuovere me stesso da questi luoghi.