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due descrizioni di un attimo

La fotografia è sempre stata per me una duplice ambigua possibilità: da una parte non mi piace avere fotografie dei miei giorni dei mei viaggi dei miei amori. Perché (lo scriveva Italo Calvino da qualche parte, ma non sono mai riuscito a ritrovare dove) ho sempre l’impressione di finire a ricordare non i miei giorni i miei viaggi i miei amori, ma le fotografie che li ritraggono; perché spesso accade che anche io sia dentro quell’immagine e dunque il mio ricordo sia costruito con gli occhi di un altro, la persona che stava scattando la foto, che non sia più il mio ricordo, che non lo sia mai stato. Odio le fotografie, pertanto.

Dall’altra parte, però, ci sono foto che riassumono tutto. Ne ho alcune, le conservo come reliquie, le guardo come si guarda ciò che si ama e si teme. Ne ho alcune, sono immagini che realizzano l’istante, sono la perfezione dell’attimo, ritraggono sorrisi che non sono mai stati più tali, sguardi in cui si leggeva una felicità mai più provata, un’infelicità indicibile, volti giovani che non sono più stati giovani, riassumono tutto quello che è accaduto prima e che sarebbe accaduto dopo, contengono radici e destino, sono bellissime. Le amo, quindi, le fotografie.

Ma forse, quello che davvero accade, almeno a me, è che le fotografie hanno senso solo quando si trasformano, invecchiano e diventano le tessere di un mosaico. Cioè non come istanti puri ma come attimi di una storia, non come ricordi né come memoria. Forse l’errore è affidarsi all’immagine istantanea come se davvero fosse esistita, come se davvero fossimo stati lì in quel momento, immobili. Mentre niente esiste se non dentro il flusso delle cose che scorrono, niente è immobile, anche le fotografie trovano pace solo quando raccontano una storia.

Ecco, giungo al punto. E il punto oggi sono due sonetti Ugo Foscolo. Due autoritratti scritti a decenni di distanza uno dall’altro, due attimi in cui il poeta si descrive e, descrivendosi, si racconta. E il confronto tra i due sonetti (lo trovate qui, scritto da Daniele Gigli) diventa l’unico vero modo che abbiamo per raccontare la storia del poeta, la storia nostra. Foscolo non sapeva, mentre scriveva il primo autoritratto, che quello era solo un pezzo del racconto, che di per sé non avrebbe avuto nessun valore; ma Foscolo lo sapeva bene quando scrisse il secondo, tutto fondato su analogie e differenze con il primo, fotografia di una fotografia che non c’era più.

Ma una fotografia, un ritratto, sono istantanei. Che cosa fare quando il tempo e le occorrenze schiacciano e deformano il soggetto, al punto che il vecchio ritratto somiglia troppo a un Dorian Gray che splende all’esterno e conserva all’interno il proprio marciume? Possenza dell’arte e degli aggettivi – Foscolo ce lo mostra, che fare, e come farlo con pochissimi, lievi ritocchi. Possenza dell’arte e degli aggettivi – e chi dimentica che arte e artigianato hanno lo stesso seme, chi dimentica che al demone dell’ispirazione deve succedere l’oscuro e lungo lavorio appassionato dell’operaio, peste lo colga.

Il mistero non è più tale. I due sonetti non svelano un istante, ma il suo contrario: svelano lo spazio muto che esiste tra di loro, raccontano la distanza tra uno e l’altro, ritraggono ciò che da Foscolo viene in apparenza taciuto: gli anni che sono passati. Tra me e le mie fotografie, ho paura, avviene ogni volta questo: non trovo in loro né un ricordo del passato né un’immagine del presente, leggo invece una distanza che odio, perché non la so raccontare. Quella distanza, tra l’altro, è la mia vita. Ogni tanto qualche scrittore di poesie trova le parole per raccontarla al posto mio, e mi toglie un po’ del peso della mia incapacità, mi regala una minima dose di sollievo. Spero, di cuore, che a volte accada anche a voi.

Davide Profumo
Davide Profumo
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