Tempi e luoghi
19 Novembre 2018cultura (scientifica)
27 Novembre 2018Camminiamo e ci incontriamo nei luoghi delle nostre città, ci innamoriamo per le strade, tutto quello che facciamo lo facciamo in casa o fuori di casa, in un paesaggio, urbano o quasi urbano, e così anche se siamo scrittori, incontriamo Beatrice agli angoli di una perduta Firenze medioevale, imprechiamo contro la falsa eleganza dei signori di corte se siamo Ariosto a Ferrara, nel Rinascimento, passeggiamo lungo le scale della città vecchia di Trieste se siamo Umberto Saba che cerca negli sguardi di un ragazzino che insegue un pallone l’autenticità di un mondo che fatica a riconoscersi.
Ecco, sarà per questo che le città mi piacciono tanto quanto i libri e che le ho sempre assomigliate ai libri. E ho sempre provato a leggerle, come se leggessi un libro (e ho provato troppe volte a passeggiare tra le pagine di un libro, ovviamente). E sarà quindi anche per questo che ogni volta che qualcuno prova a raccontare come stanno cambiando il luoghi che attraverso e dove incontro le altre persone (i luoghi sono anche letterari, lo dicono pure le antologie per le scuole medie…), mi fermo e ascolto: sperando che s’intravveda, nel mondo i cui i luoghi cambiano perché noi li cambiamo, qualcosa di ciò che siamo (che sono) e che stiamo diventando (che sono diventato), sperando sempre di incontrarci qualcuno che mi aiuti a capire.
Oggi mi è accaduto con questo breve apologo di Francesco Pecoraro a proposito di una modernissima palestra (non ne ho mai frequentata una, me la sono dovuta immaginare) che ha cambiato il profilo urbano della semiperiferia un po’ anonima di una città qualunque. Mi è piaciuto molto e come al solito ve lo ripropongo (ce ne sarebbero anche altri due, di articoli a proposito del nostro panorama urbano in mutamento, in verità: uno, molto acuto, riguarda una zona di Milano invasa dai cantieri della nuova metropolitana, lo trovate qui ed è pungente, vi piacerà; l’altro lo ha scritto Raffaele Simone e parla di un tema a cui vi ho già più volte rimandato, per cui volevo scartarlo; ma come vedete, non resisto alla tentazione, nemmeno questa volta); invece, il bel racconto di Francesco Pecoraro che ho incontrato oggi comincia così:
Di recente, sullo stradone para-periferico dove abito – è centralissimo ma, a partire da un’evidente disgregazione spazio-sociale, ha molte caratteristiche della periferia – è atterrato un Centro Commerciale con annesso il centro fitness di una nota multinazionale che tratta musica, linee aeree, gym, bevande, servizi finanziari, giochi per computer, internet, tv via cavo, distribuzione, telefonia mobile e chissà cos’altro, ma molto altro, che nel 2016 ha fatturato 19,5 miliardi di sterline. Il grosso buco post-industriale, divenuto edificabile verso la fine dei ’60 del Novecento e che per decenni ha costituito un brano di «terzo paesaggio», qualsiasi cosa voglia dire, è stato mineralizzato in pochissimo tempo secondo un progetto dal linguaggio mid cult, di cui si percepiscono le infinite modifiche, le incertezze stilistiche, le soluzioni arronzate, e suddiviso in spazi che, senza riuscirvi, vorrebbero essere pubblici. Ma il clou dell’intervento è un centro commerciale per consumo di fascia medio bassa, di per sé scarsamente attrattivo e però capace lo stesso di uccidere in breve tempo le poche piccole imprese commerciali già presenti in zona. Mentre il centro fitness ha già fatto fuori tutte le palestrucce, semi-interrate e male-odoranti, che da decenni, con il loro carico di funghi simbionti del piede umano, vivacchiavano in zona.
E poi prosegue, sempre più efficace, raccontando un luogo che racconta noi stessi, come uno specchio che ripetutamente riflette se medesimo, fino a pronunciarla davvero, la parola cultura, quella che è il centro dell’articolo e dell’apologo, il centro delle strade delle città in cui continuamente ci incontriamo, l’oggetto dello specchio che da sempre guardiamo:
C’è qualcosa nel centro fitness che mi sembra importante, ma che non riesco bene ad afferrare, come fosse l’annuncio, uno degli annunci, di un sostituzione di civiltà in atto, come fosse uno dei segnali che il corpo sociale attorno a noi novecenteschi sta mentalmente cambiando. Un indicatore di uguaglianza, di orizzontalità culturale: abbiamo redditi diversi ma sappiamo tutti le stesse cose, cioè poco o niente, e le differenze sociali non sono più tra chi sa e chi non sa, tra chi possiede risorse e chi no, ma soprattutto tra chi è in forma e chi non lo è, cioè tra chi col proprio corpo è in grado di esibire il risultato dell’acquisizione di una cultura, anzi della cultura, quella del cibo e del fisico e del metabolismo e di ciò che è naturale e di ciò che non lo è, e chi trascina su queste strade un corpo ignorante, cioè con ogni evidenza non curato, non nutrito come si deve, mai allenato e dunque già morente, perché ogni medico, anche il dentista, ti dice dell’importanza di fare moto, non importa se in bici, a piedi, di corsa o su un tapis roulant, meglio se col ritmo cardiaco sotto controllo, meglio se mantenuto sotto 140 battiti.
Le strade le vie degli stradoni paraperfierici delle nostre città ci raccontano chi siamo, come i libri. Ci passeggiamo, ci imprechiamo, ci perdiamo al loro interno e ci leggiamo noi stessi. Leggiamo le storie di Dante e Beatrice e ci immaginiamo (male) le strade in cui avvenivano. Andiamo nei luoghi e ci troviamo la gente, ecco dove va la gente, dice a un certo punto Francesco Pecoraro, ecco dove la possiamo incontrare, ecco lo specchio in cui possiamo finalmente guardare e forse, un pochino, riconoscerci.