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19 Maggio 2020Domani, quindi. Domani è il giorno delle ri-aperture, la fine delle autocertificazioni, lo spalancarsi di una finestra che avevamo in questi giorni schiuso con cautela, con timore. E avrei pertanto voluto un bel testo su questo gesto dell’aprire, dello spalancare: una poesia cercavo, soprattutto una bella poesia, ma mi sarei accontentato anche di un passo in prosa, di un appunto, di un estratto da un carteggio qualunque. E invece…
E invece il web mi ha portato a leggere due articoli belli ma rivolti all’indietro, rivolti al muro che ancora si oppone a quella finestra che domani, finalmente, potremo riaprire, spalancare, fare entrare aria. Il primo articolo inizia con una scena medica, ospedaliera: ed è una crisi cardiologica quella che viene raccontata, mi direte voi quanto esattamente. Non ho potuto rinunciarvi proprio per questo, perché in qualche modo ci mette davanti alla malattia (alla «cura», in verità) che prescinde dalla pandemia e dal virus, che esisterà anche domani, che non smetterà di esserci. Lo ha scritto Igino Domanin, è molto interessante (lo trovate qui), e dopo l’episodio che mette in scena se stesso in un pronto soccorso di un qualsiasi nostro ospedale, l’articolo comincia a ragionare sulla clausura, sui suoi effetti, a parlare anche di letteratura e di quello che la pandemia lascerà ai nostri giorni di finestre che si riaprono…. Ma l’inizio è questo:
La notte del 2 gennaio 2020, sono finito in un pronto soccorso. Mi diagnosticano una fibrillazione atriale in corso. Per la prima volta riconosco l’esistenza del cuore, la sua attività e la sua minaccia. Ho perso il controllo, il muscolo ora si contrae e si espande, pulsa troppo, mi figuro come se si trattasse di un pugno che si stringe. Il pugno è invisibile, interno, ma fisico. Una presa che si afferma su tutto quanto il mio essere, lo scuote, lo tramortisce. Lo impaurisce. Sono steso supino con una serie di ventose appiccicate sull’epidermide da cui partono cavi elettrici collegati a macchinari che visualizzano grafici. Sono lasciato solo. C’è molto da fare in un Pronto soccorso, molto viavai, molto rumore di sofferenza vaga e intensa. Il personale medico ti cura immediatamente, ti accoglie, ti assegna un codice, ti sistema, ti sorveglia. Disciplina il corso delle cose, ma è il tuo corpo che comanda, il suo stato che detta legge su di te. Basta pochissimo per sentirti abbandonato. Sei accasciato, sei soccombente, un essere vulnerabile. Sei trascurabile per molti aspetti. Ancora pensi, ma dei tuoi pensieri cosa sarà? A cosa servono? Qui contano solo i protocolli.
Il secondo articolo lo ha invece scritto Marco Belpoliti, e parla di un sentimento che anche in me la pandemia ha destato con forza che non mi attendevo. La stanchezza.
Esco molto stanco da questa lunga quarantena. Non ho fatto niente di cui debba essere realmente stanco e invece ne esco stanchissimo. Uso quindi le parole di Belpoliti (che trovate qui) per raccontarmi quetsa sensazione, questa brutta sensazione, questo sentimento di spossatezza che mi pare più intellettuale che fisico, che mi sembra il risultato di una fatica soprattutto spirituale. E forse ha ragione Belpoliti, quando arriva a scrivere così:
Cosa ci resta? L’interruzione della nostra vita di relazione, del nostro lavoro, della nostra mobilità, del consumo stesso. Siamo stati parcheggiati in un intervallo che non funge da intervallo. Uno spazio intermedio, che ora sembra potersi estendere a dismisura: per quanto tempo staremo ancora così? La nostra non è neppure la pigrizia di Oblomov, o il “avrei preferenza di no” di Bartelby, lo scrivano di Melville, che dice di no. Né sì né no. Per questo siamo stanchi, molto stanchi. Neppure uscire, come abbiamo fatto ora, camminare, muoverci, correre, riesce a sanare questa estrema stanchezza. Lottiamo per sopravvivere al virus, e tutto questo ci ammazza di stanchezza.
O forse non è vero, può darsi sia soltanto l’afa di questa domenica mattina a farmi attendere la ri-apertura di tutto con questo sentimento stanco e maldisposto. Devo invece pensare alla mattina di domani come allo squarcio di un sipario, a una luce che finalmente rientra, a una nuova partenza, a un nuovo amore.
Ho la poesia, se la volete (la tenevo segretamente in serbo…). L’ha scritta molti anni fa Cesare Pavese, dedicandola a una donna che amava e a una città di cui era ospite. Si intitola Passerò per Piazza di Spagna. Io la trovo bellissima (la dedico, in cuor mio, a tutti gli innamorati che da domani potranno vedersi senza autocertificazione). Dice così:
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane –
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita.
Sarai tu – ferma e chiara.