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9 Gennaio 2018la luce e il buio
12 Gennaio 2018Cerco oggi di proporvi una marginale riflessione sulla parola letteraria, quella specifica dei libri di letteratura, dei grandi romanzi, delle indimenticabili poesie che rischiamo quotidianamente di dimenticare. Io credo (fermamente, per quanto io possa riuscire a essere fermo) che tale parola sia il contrario dell’adattamento alla realtà: che sia la parola del dissonante, del disagio, del fuori, della prospettiva altra da cui partiamo per comprendere il reale in cui viviamo immersi (e inconsapevoli); direi addirittura la parola del disadattamento, se tale termine non fosse troppo facilmente equivocabile. Lo credo anche se a volte faccio fatica a crederlo, come tutte le idee a cui si crede con più energia.
Però ho ritrovato (in modo vario e con varie ragioni) questa mia idea in alcuni scritti pubblicati recentemente sul web e volevo proporli ai miei sparuti lettori, sperando che aiutino almeno me a restare fermo in questa fede (non ho trovato altra parola per dirla, ahimè). Il primo post lo ha scritto Franco Arminio, cui mai è possibile attribuire riflessioni banali o scontate. Parla di una letteratura che non c’è più, e a un certo punto scrive così:
Siamo dentro un fenomeno scandaloso che non scandalizza nessuno. La parola non viene da nessun silenzio, non ha nessun silenzio a cui appoggiarsi. Il silenzio semmai è il prodotto del libro bello. Si può solo quantificare quanto silenzio produce, come se a un certo punto si potesse pensare che solo l’indifferenza è la prova della qualità di un’opera. Ma pure questo ragionamento è un errore. In realtà, semplicemente, il giudizio non si forma e non viene pronunciato, non c’è giudizio per la letteratura né da parte di una cerchia ristretta né da parte della comunità dei lettori … Sembra quasi che gli scrittori per fare letteratura non debbano più essere dei sovversivi, ma dei conservatori, sembra che il buon senso sia più intenso del delirio.
Ma una riflessione non dissimile da questa (anche se elaborata in termini assai più argomentativi che lirici) è quella condotta proprio oggi da Emanuele Zinato, nel corso della recensione del più recente libro di Claudio Giunta. È una recensione bella, quella di Zinato. Talmente bella che forse rende superflua la lettura stessa del libro (il quale si trova in gran parte già pubblicato in rete, e anche questo non sarà un dato secondario). Zinato ha compreso alcuni dei passaggi fondamentali del libro di Giunta e ne ricava per esempi questa considerazione:
Il testo letterario rappresenta tuttavia un’alterità dal presente ed è ancora una risorsa per chi intenda fare “come se” quel mandato fosse ancora attivo: all’antropologia delle monadi isolate, la letteratura oppone un’antropologia relazionale perché il suo significato è una “costruzione” interdialogica. La domanda di senso che gli studenti ancora ci rivolgono (non il caricaturale “dire un grosso no a tutto questo”, p. 283) può essere intercettata e valorizzata dalle emozioni, dalle ambiguità e dagli enigmi dei testi, strutturalmente non diversi da quelli della mente e della vita e dalle reazioni individuali di lettura dei partecipanti in un processo sociale. L’esperienza interpretativa è, in classe, una delle ultime occasioni per verificare un’ipotesi che Giunta, in accordo con il pensiero dominante, non condivide: che l’essere è l’essere sociale, che è meglio ciò che unisce e rende uguali di ciò che divide e fomenta sopraffazione e diseguaglianza.
Ma voglio esagerare, anche oggi. E quindi, come se pure non fosse abbastanza, chiudo con le parole di una poetessa, nella consueta cieca fede che le parole dei poeti («sono quasi sempre belle, sono quasi sempre vere») siano frecce che arrivano un centimetro più lontano dei nostri ragionamenti. Non sempre, naturalmente; anzi quasi mai. Ma una volta su centomila sì; abbastanza, insomma, per sperare che sia quella volta, ogni volta. Mariangela Gualtieri (è di questa bravissima poetessa che stiamo parlando), alla domanda sull’essenza della parola poetica ha dato questa risposta (ne ha date anche altre, che vi consiglio di leggere), che prendo e porterò con me, sperando di ricordarla per qualche giorno di più di quello che il buon senso contemporaneo considera giusto e ragionevole:
Credo non basti dire che l’elemento essenziale per un poeta è la parola, perché questo varrebbe anche per la prosa, per la narrativa. Credo sia necessario aggiungere alla materia prima anche il silenzio: la poesia è una parola che tiene con sé anche il silenzio. Mi è difficile separare parola poetica e silenzio. Quando lei mi chiede della parola io subito penso anche al silenzio, forse come luogo di origine della poesia. Sento le parole come divinità, o certamente come condensati magici, che ci rendono capaci di comunicare da una profondità a un’altra profondità, capaci di guidarci in una avventura di conoscenza alta e vertiginosa, da una psiche a un’altra psiche, da un cuore a un altro cuore.