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di vecchie e nuove architetture

Nel periodo trascorso mentre questo sito rimaneva chiuso per la doverosa e fruttuosa manutenzione (a proposito: c’è anche un feed reader attivo, adesso, spero ne siate felici), a me sono ovviamente capitate alcune cose. Tra quelle che ricorderò più volentieri, anche in futuro, c’è il fatto di avere preso un aereo in compagna di quindici diciottenni (per fortuna) intelligenti e (per grandissima fortuna) bene educati (qui c’è la spiegazione della mia fortuna; e qui c’è la disgrazia altrui) e di essere andato a fare un giro di qualche giorno a Berlino. Naturalmente non mi metto a raccontare qui quello che io e i sopraddetti giovani abbiamo visto e fatto in dettaglio, ma almeno un ricordo vorrei condividerlo: sono tre immagini, che allego qui, consecutivamente.

Il primo luogo è l’Olympiastadion, che all’esterno si presenta ancora quasi identico a come lo fece costruire Hitler negli anni Trenta, quando fu sede dei giochi olimpici del 1936 (e fu anche la sua propaganda politica, natralmente). Il secondo è la Karl-Marx-Allee, la grande via di rappresentanza della Ddr, quella in cui risiedevano tutti i grandi funzionari dello stato tedesco sotto l’influenza sovietica. Il terzo luogo è il Sony Center, costruito dai grandi architetti contemporanei sulle ceneri del muro, a Potsdamer Platz, negli anni Novanta.

Ecco, al di là dei giudizi estetici che sono tutti leciti e possibili, si tratta di tre modi che il potere ha trovato, negli anni, per raccontare se stesso; si tratta in sostanza di tre momenti perfettamente e consapevolmente autocelebrativi, che si sono fatti narrazione della loro contemporaneità (nel terzo caso della nostra contemporaneità)  e del potere che li ha voluti, una vistosa apologia del presente, l’attuale incarnato in cemento e vetro. E in quei luoghi si è trattato, quindi, insieme ai diciottenni gentili e intelligenti che erano con me, di comprendere che ogni architettura è narrazione di sé e del suo mondo contemporaneo, e che come tale andrà letta; e che questo nostro provare a leggere il reale sarà sempre cultura, nel senso più alto del termine, anche quando loro saranno diventati medici, o avvocati, o magari architetti. E arrivo pertanto al dunque.

Il quale dunque è un bellissimo e istruttivo post di Massimo Mantellini, che racconta della stazione Termini di Roma e di quello che tutti conoscono come il Dinosauro. È un racconto corredato di immagini ed è anche un apologo splendido di quello che siamo stati e di quello che siamo diventati; e di come l’architettura di una stazione che tutti conosciamo possa nitidamente raccontarcelo, anche quando magari non ce ne accorgiamo. Senza giudici estetici, nemmeno questa volta; ma con qualche dubbio, però, sì, almeno quello direi che possiamo e dobbiamo permettercelo. Il post di Mantellini comincia così:

Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di andare a Roma: quasi sempre arrivo in treno alla Stazione Termini. Oggi dopo aver letto un post di Vic su Friendfeed ho passato un po’ di ore in rete a fare ricerche sulla principale stazione ferroviaria della Capitale di cui non sapevo molto. Ho scoperto cose che probabilmente molti di voi sanno già, per esempio che la parte ondulata della stazione che si affaccia su Piazza dei Cinquecento è chiamata il dinosauro. Poi ho scoperto che l’ultima versione di Termini è stata completata nel secondo dopoguerra dopo una gara fra diversi progetti che creò molte polemiche

 Il concorso rappresentava una delle prime grandi occasioni di confronto per la cultura architettonica italiana nel dopoguerra, eppure fu sostanzialmente disertato da molti architetti che invece avevano partecipato ai grandi concorsi del periodo precedente

Davide Profumo
Davide Profumo
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2 Comments

  1. Stefania S. ha detto:

    Ben tornato prof. Sono contenta che sia stato a Berlino, ma ora mi riferisco a L’oblò, che mi è mancato, e non solo nelle lunghe notti di guardia.

  2. Davide Profumo ha detto:

    Molte grazie, gentile Stefania. E speriamo di riuscire a scrivere qualcosa di buono e/o interessante, per quest’anno.

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