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i ritagli di settembre
1 Ottobre 2017

di eventi illeggibili

Tra tutte le cose che ho lette e imparate in questi pochi giorni in cui il sito dei cardiologi che mi ospitano si è rifatto un po’ il trucco (mica male, a mio parere), due sono quelle che voglio annotare per me e per quei pochissimi lettori che di qui passeranno. La prima è che è uscito il nuovo libro di poesie (ma non solo di poesie) di Guido Mazzoni. Il quale è uno degli intellettuali (uso la parola con forza, amandola e ammirandola) italiani più lucidi del nostro miserabile tempo (parere mio) e per il quale, ogni volta che trovo modo di leggerne le parole, sento uno spontaneo moto di vicinanza e ammirazione, come accade con coloro che sanno esprimere ciò che confusamente noi intuiamo, talvolta, di pensare. Il nuovo libro si intitola La pura superficie, io sto uscendo per andare a comprarlo, ma vi lascio un’anticipazione qui sotto, che ho preso in questa pagina, dove ce ne sono altre:

 

Incontro Rino Genovese in Boulevard de Montparnasse, ci conosciamo male, passiamo i primi minuti a calibrare le distanze, attraversiamo i passaggi mentali che le persone attraversano per accostarsi alle persone. Fra qualche mese lui compirà sessant’anni; io penso a come sia avere sessant’anni, vedere la propria vita diventare indecifrabile per chi esiste nel presente, regredire nel passato. La lastra sopra di noi si muove senza le nuvole, i passanti oltre i tavolini camminano senza uno scopo. È agosto, è domenica; anch’io sto regredendo.

Parliamo degli anni Novanta, degli anni Settanta, di un’assemblea in cui Genovese prende la parola come militante di un gruppo extraparlamentare per spiegare ai compagni la rivoluzione comunista in Angola. È il 1976, ha ventitré anni, non è mai stato in Africa, non conosce il portoghese, sa di essere bordighista ma non sa nulla delle quaranta lingue che si parlano in Angola – ma per mesi interi, nel 1976, va in piazza per difendere la rivoluzione comunista in Angola, parla dell’MPLA, dell’FNLA, dell’UNITA, dell’ingerenza del Sudafrica, di imperialismo americano. Migliaia di sconosciuti combattono una guerra di cui capiscono poco e che terminerà, venticinque anni dopo, per estenuazione, eccesso di morti, indifferenza; lo fanno per obbligo, per necessità, per interesse, perché appartengono a un’etnia, per puro caso – ma nel 1976 il mondo è leggibile, lo è oggettivamente; la realtà è un conflitto fra due forme di vita, e questo schema è rozzo ma sta dentro le cose, le semplifica e spinge masse di giovani italiani a parlare, per mesi, della rivoluzione comunista in Angola, a scendere in piazza, a Massa o a Pescara, come se l’Angola avesse un rapporto con Massa o con Pescara, o come se Massa o Pescara avessero un rapporto con la storia, compiendo un gesto che nel 1976 è ovvio, ma che cinque anni dopo sarebbe diventato incomprensibile come un rituale totemico o una processione medievale – e mentre l’aneddoto ricrea questo mondo, qualcosa si lacera, il paesaggio si fa ironico, la parola ‘bordighista’ si copre di virgolette, il cellulare ci riporta nel presente e mi trovo a disagio come quando, negli ultimi vent’anni, ho parlato di Ruanda, Jugoslavia o primavere arabe mentre era palese che a nessuno interessava parlarne veramente, e ascoltavo gli altri, e ascoltavo me stesso ripetere idee di terza mano per obbedire a un rituale che apparteneva a un’altra epoca, seguendo un’ossessione che, se vista da lontano, non è molto diversa da quella che occupa la mente di coloro che organizzano il proprio tempo intorno a uno dei tanti dada di cui è fatta la vita umana, alla monomania di chi vive per il fitness, i giochi di ruolo o l’Atalanta; perché i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi, per questo voglio sentirmi credibile e presente – i miei problemi, la forma dei suoi occhiali, la chemioterapia di un amico, la gravidanza di un’amica, un altro neonato. Ci salutiamo così.

 

Il secondo testo che ho letto (su segnalazione di un amico, il che naturlamente me lo rende ancora più prezioso) parla di un secondo intellettuale (e uso la parola con ancora più forza, amandola sempre di più) che ci ha lasciato qualche anno fa ma che, come pochissimi altri, aveva saputo leggere le pieghe del miserabile presente che nel frattempo noi abbiamo continuato ad abitare. Si chiamava Leonardo Sciascia ed è qui mirabilmente descritto nel suo rapporto con la città di Palermo, a lui così simile e da lui così diversa, e come lui bellissima e terribile. L’articolo, a un certo punto, dice così:

 

Sul fatto che Palermo avesse ancora un cuore, Sciascia nutriva però dei dubbi. Per precisare la natura di questi dubbi, occorre tornare al reticolo di luoghi che puntella l’idea che egli ha disseminato negli scritti in cui si occupa di Palermo, saggi in cui egli l’ha ripensata come fosse una città fisicamente compromessa, della quale era possibile farsi un’idea solo a partire dal frammento documentale, dalla scrittura, dalla pittura o ancora, tramite la fotografia, il mezzo più coinvolto nella memoria. Infatti, ripensare Palermo significa per Sciascia, innanzitutto, restituirle una visione, emendandola degli oltraggi che ne offuscano la vista. Per lo scrittore, quel che sappiamo di Palermo è più forte di quel che vediamo. Per il grande scrittore di Racalmuto, la capitale siciliana è indifferente o arrogante, mai cosciente. Se la Milano descritta da Luca Doninelli è una capitale costretta a registrare il crollo delle proprie aspettative, la Palermo di Sciascia è una capitale che neppure nei suoi fasti ha mai preteso aspettative, anzi, che sin dall’origine ne ha introiettato il crollo.

 

E questo è pertanto ciò mi ha lasciato quest’ultima settimana di settembre, insieme ai pochi ritagli che domani (o lunedì) vi proporrò senz’altro. E che sia un bel fine settimana, almeno.

Davide Profumo
Davide Profumo
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