C’è un angolo, nella stanza del mio amore per la poesia e la letteratura, in cui ho prima ammucchiato e dopo chiuso (come a volerli definitivamente dimenticare, ma sapendo invece che era l’unico modo che avevo per ricordarli; oppure, se preferite, come a volerli per sempre ricordare, ma sapendo che era il solo modo che avevo per dimenticarli) alcuni dei meno raccontabili segreti che mi hanno condotto, tanto tempo fa, ai libri di versi e d’amore, anche loro ammucchiati negli angoli delle stanze che ho cambiato, da una casa all’altra, da una città all’altra.
Quell’angolo è raccontato da alcune canzoni di un cantante che non ho nemmeno voglia di nominare, da qualche anno; oppure da certe poesie che a scuola, ai miei studenti, non leggo più, perché sarebbe come rimanere nudo davanti a loro, e non è il caso, ora che non sono più un ragazzo; oppure, come per incantesimo, è raccontato da alcuni pezzi che ogni tanto mi capita di leggere (e magari ci metto quasi due mesi per accorgermene e confessarlo a me stesso…). Oggi, per esempio, ho riletto uno di questi pezzi, che mi ero salvato qualche settimana fa in una cartella che poi avevo dimenticato (oppure no): lo ha scritto Matteo Marchesini (sempre bravissimo) e parla di Pavese e Pasolini. Ma soprattutto perla di eros e di amore per la letteratura e la poesia. Se avrete voglia di leggerlo, ve ne accorgerete subito:
Immaginate un giovane che tenta di trasfigurare le sue sconfitte esistenziali nel lavoro poetico – uno studente che vuole, fortissimamente vuole essere scrittore. Capita a tanti. Ma quasi tutti scrittori non sono, e a un certo punto devono (dovevano allora) prenderne atto. Lui invece non solo vuole esserlo ma lo è davvero, ne ha il talento. Il meglio che può capitare, verrebbe da dire. Invece è un destino diabolico. Perché gli altri, abbandonate le velleità, sono costretti ad affrontare le sconfitte, a imparare il mestiere di viverle e di superarle, mentre lo scrittore si illude di poter rimandare i conti: diventa solo formalmente adulto, e intanto continua a credere che un giorno i trionfi letterari gli permetteranno di riconquistare il mondo non letterario da cui si sente escluso. Ma poi, quando i trionfi arrivano, scopre l’ovvietà che tutti sanno e che anche lui sapeva, però in astratto: la riconosciuta maturità artistica non porta con sé la maturità tout court. Così, ecco le ultime parole: “Non scriverò più”.