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dalla parte della ragione

Il saggio italiano più interessante tra quelli che sono usciti nelle ultime settimane è senza dubbio il pamphlet di Walter Siti, che si intitola Contro l’impegno. È il più interessante perché parla della letteratura circostante e lo fa per criticarla in una delle sue più insopportabili caratteristiche: il moralismo edificante, la tendenza a porsi «dalla parte del bene», a «veicolare un messaggio»; ed è interessante per come critica gli scrittori più amati entro la letteratura circostante, quelli la cui parola «letteraria» pare essere la più ascoltata e apprezzata (parliamo di Saviano, di Murgia, di Carofiglio, di D’Avenia e di altri). E Walter Siti, che certo non ha bisogno di guadagnarsi fama né facili palcoscenici, ci dice che quella parola è, semplicemente, poco (o punto) «letteraria».

È un saggio di grande valore, elegante, colto, acuto, scritto benissimo. Ve ne cito un passaggio iniziale, perché possiate farvi un’idea e capire di cosa stiamo parlando:

La versione oggi prevalente dell’engagement punta su un contenutismo tanto orientato sulla cronaca quanto angusto, con temi che non è difficile elencare; migranti, vari tipi di diversità, malattie rare, orgoglio femminile, olocausto, bambini in guerra, insegnanti eroici, giornalisti o avvocati in lotta col Potere, criminalità organizzata, minoranze etniche […] L’etica soggiacente si può riassumere in postulati discutibili ma mai discussi: amore e brutalità si escludono, la lotta basta a se stessa, ciò che puoi sognare puoi farlo, non mollare mai, l’odio nasce dall’ignoranza, la violenza è sempre da condannare, bellezza è verità, i bambini sono innocenti. La resistenza prevale sul progetto … il neo-impegno sembra teso a valorizzare l’opposizione in quanto tale e a confermarsi dalla parte giusta.

Oppure potete andarvi a leggere (prima di comprare il saggio e dedicarci un fruttuosissimo pomeriggio, ve lo garantisco) l’intervista che lo stesso Siti ha rilasciato pochi giorni fa a Nicola Mirenzi (la trovate qui). E trovarvi risposte folgoranti, come questa:

La letteratura viene usata per ‘fare presa’, per influire; viene messa al servizio di idee prestabilite, non per avventurarsi nella scoperta di qualcosa che non conosciamo ancora. Assume così un ruolo ancillare. Ed è un’umiliazione della letteratura. Che può davvero essere utile, invece, solo quando fa male.

O anche questa:

Se le devo dire la verità, il sentimento predominante è il dolore. Sto male, e, come ho fatto altre volte quando sono stato male, ho scritto per chiarire a me stesso, prima di ogni cosa, le ragioni di quello che provo. Mi dispiace che un libro così abbia dovuto scriverlo io, a quasi settantaquattro anni. Avrei preferito lo facesse uno di trent’anni.

O infine, se davvero siete molto restii a lasciarvi convincere, potete leggere il lungo post (starei per dire: saggio critico) che Claudio Giunta ha dedicato al pamphlet di Siti, parlando in verità molto di se stesso, ma mettendo anche a fuoco alcuni dei punti fondamentali che stanno al cuore di Contro l’impegno. Per esempio questo:

[Labranca] avrebbe sottoscritto praticamente tutte le opinioni che Siti argomenta così bene nel corso del libro: che l’idea (diffusa soprattutto a sinistra) che la letteratura debba avere una funzione pedagogica, e istradare al Bene, o avere una funzione terapeutica, o «riparare il mondo», o «combattere l’infelicità», o «coltivare l’empatia» è tanto sciocca e pericolosa quanto l’idea (diffusa soprattutto a destra) che la letteratura debba rispettare e anzi proteggere i valori etico-religiosi di una determinata comunità o Stato…

Ecco, potrei finire qui. Il saggio di Walter Siti è interessante e prezioso, mi è piaciuto molto, è piaciuto a tutti i lettori più intelligenti che conosco, ve lo consiglio, c’è poco da aggiungere. E invece.

E invece vi devo una piccola confessione. Non ci ho affatto messo un pomeriggio a leggerlo. Ho fatto fatica, me lo sono trascinato, ho nel frattempo letto altri romanzi e altri saggi, ho pensato a un certo punto che non lo avrei nemmeno finito, che mi era inutile leggerlo.

Semplicemente perché mi dava ragione: diceva di Saviano quello che già penso di Saviano, e di Murgia quello che già penso di Murgia, e di Carofiglio quello che già penso di Carofiglio. Non mi ha fatto male, questo libro. Mi ha consolato e confortato. E forse, pensavo mentre lo leggevo, avrei dovuto leggere altro: forse dovrei leggere quello che mi fa male, ha ragione Siti. Forse dovrei sempre e solo leggere D’Avenia, davanti al quale ho torto, davanti al quale sono un uomo senza sogni, invecchiato male, pelato e di cuore arido, davanti al quale (ai libri del quale) mi viene proprio da piangere, tanto mi fanno stare male…

O forse no, magari (speriamo) mi sono messo troppo in mezzo alle pagine che leggevo, non è necessario stare sempre male, a volte capita pure di avere, semplicemente, ragione.

Davide Profumo
Davide Profumo
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2 Comments

  1. Alessandro Campi ha detto:

    Anche Carofiglio?

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