fin sulla luna
8 Luglio 2021mondi lontanissimi
1 Settembre 2021Mi piacerebbe ripartire da una metafora (anche perché non ho mai saputo fare altro: sono partito e ripartito ogni volta da una metafora, forse non ho mai neppure cambiato metafora. Mi pareva, ma era sempre la stessa).
Mi piacerebbe partire da una metafora e la metafora da cui oggi vorrei ripartire è un fungo. Che si chiama matsutake e di cui non sapevo nulla fino a pochi giorni fa. Poi ho letto un articolo che ne parla e ho deciso che leggerò anche il libro che diffusamente ne racconta. Anche perché (è questa la cosa che più mi ha incuriosito) l’articolo (che trovate qui) parla piuttosto male del libro che parla del fungo e ne fa una metafora: e questo rende la metafora meno semplice di quello che all’inizio mi era sembrato:
Il matsutake è frutto di una micorriza, ovvero un’associazione simbiotica fra il micelio di un fungo e le radici di un’altra specie vegetale, una pianta superiore, nel suo caso i pini. È un fungo commestibile ritenuto estremamente prelibato e generalmente piuttosto costoso. Non è possibile coltivarlo. Cresce per lo più in Giappone, Corea, Bhutan, Laos, Estonia, Polonia e nei paesi scandinavi, ma anche in alcune zone della costa pacifica di Canada e Stati Uniti. Ma i funghi selvatici matsutake hanno una particolarità fondamentale: quella di spuntare per lo più in foreste perturbate dall’uomo, ovvero zone di sfruttamento industriale intensivo e di successivo abbandono, di gestione altamente antropizzata di quegli spazi “naturali”, talvolta zone vittime di disastri ambientali, e così via. Anna Lowenhaupt Tsing indaga quelle forme di perturbazione e le forme di sussistenza umana che generano o che, secondo l’autrice, lasciano intravedere o immaginare
* * *
Ma mi piacerebe anche ripartire da uno scrittore di romanzi gialli, cioè da un genere molto sfruttato, come un centro storico di un borgo medievale del tutto svenduto ai turisti e che tutti hanno già visto, come succede alle cose che non sopportiamo più, proprio perché le abbiamo apprezzate per anni, e adesso ne siamo stanchi, ci siamo stufati, ne vediamo con troppa chiarezza i limiti… Ecco, mi piacerebbe lo stesso ripartire da uno come Giorgio Scerbanenco, di cui si traccia un nitido profilo in questo articolo, raccontandoci della sua vita e dei suoi libri, che un editore sta meritoriamente ripubblicando in questi mesi. Mi sono sempre piaciuti i libri di Scerbanenco, li ho sempre trovati un po’ malinconici, molto più tristi di quello che lo scrittore voleva. Forse perché ha ragione l’autore dell’articolo quando scrive così:
La preoccupazione principale, per Scerbanenco, sembra essere sempre la materia più oscura che si nasconde dietro le sue storie, a prescindere dove siano ambientate: i più oscuri moti dell’animo umano. Un animo che Scerbanenco scandaglia implacabilmente, come un sub alla ricerca di tesori nascosti sul fondale del mare: le contraddizioni delle persone, le loro nevrosi, le passioni, i piccoli drammi borghesi che si trasformano in tragedia, nulla sfugge all’occhio analitico, quasi clinico di Scerbanenco. Tutti i romanzi di Scerbanenco, da questo punto di vista, possono essere considerati “gialli”, dietro a ogni vicenda c’è il mistero, il turbamento, la sciagura.
* * *
E infine mi piacerebbe ripartire anche da Giacomo Leopardi, dalle sue stanze, dai suoi giochi con i fratelli, dal suo palazzo di Recanati e dalla sua voglia di fuggire da quel palazzo. Non so perché, forse perché tutto quello che è stato il Novecento poetico ha, in qualche modo, dovuto cercare di ripartire dal conte Giacomo, senza eccezioni, presenza ingombrante e oscura, mai risolta, della storia letteraria. Forse perché ogni volta pensiamo di capire chi lui sia stato e ogni volta ci accorgiamo di averlo capito male… E mi piacerebbe che qualcuno di voi leggesse per esempio queste brevi righe sulla casa del poeta, questo tremante ritratto di un uomo di cui pare impossibile tracciare un vero ritratto, perché sfuggente, perché notturno, perché sempre un passo più avanti di quello che ci eravamo immaginati:
Il letto rifatto del poeta ha un drappo verdeazzurro ben disteso, senza una piega. Nessuno dorme più qui, ormai da secoli. Non si possono scattare fotografie, quindi cerco, nei pochi minuti che mi regalano in questa stanza, di cacciarmi negli occhi ogni minimo particolare. Il letto – un letto a una piazza – sarà di foggia napoleonica? A me sembra una barca senza remi. Alla deriva. Il comodino, alla destra del letto, ha due cassettini, ma solo il secondo offre la chiave. Quali segreti riponeva nel cassetto Leopardi? Cosa ci nasconde un poeta nel comodino? Sarà sempre stato così in ordine? A sinistra del letto, un cassettone intarsiato con quattro piccoli busti, in miniatura. Sembrano volti di filosofi.
* * *
Ma la verità (se avete avuto la pazienza di arrivare fin qui, ve la meritate, quel po’ di verità) è che la cosa che più mi piacerebbe sarebbe quella di non ripartire affatto: né da un fungo, né da uno scrittore dimenticato, né da un poeta sempre male interpretato. Fermarmi, piuttosto. Restare sul posto, in silenzio, aspettare, non so cosa.
Aspettare un’altra metafora, questa volta, che sia davvero altra. E godersi il brivido di paura che nasce al pensiero che essa proprio non esista.