C’è un post molto impegnativo che vorrei, oggi, segnalare a chi si occupa (e preoccupa) dei battiti del cuore. È un vero e proprio saggio di critica, un’impeccabile analisi della poesia di quello che io fatico a non considerare il più grande poeta che abbiamo avuto in Italia nel Novecento, dopo Montale. E cioè Franco Fortini.
Ma il mio consiglio non dipende solo dalla grandezza dell’autore analizzato. Mi piace suggerire a voi cardiologi questo post, perché il poeta Fortini viene qui messo in relazione con le grandi tragedie del Novecento, la guerra, gli orrori dello stalinismo, la ferocia dei lager. È un percorso critico di ampio respiro, uno scritto che va molto al di là del semplice suggerimento di versi e di testi poetici e finisce quindi per disegnare anche un’idea di quello che oggi noi, qui vivi, cerchiamo e chiediamo alla letteratura.
(Poi, in fondo a questa pagina, se siete stanchi, come è giusto che siamo, vi prometto che c’è anche il consiglio di un libro assai più leggero ma comunque molto colto e raffinato: potete insomma scivolare direttamente verso la fine, se volete.)
Il saggio, scritto da Bernardo De Luca (che trovate qui), inizia così:
I rapporti tra guerra e letteratura sono stati centrali nella riflessione novecentesca, fino a mettere in dubbio la legittimità della letteratura stessa, e in particolare della poesia, di fronte alla barbarie.
È un’eco della famosa frase di Adorno, del 1949, per cui «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»; ma ne è ovviamente un’eco che risuona dal futuro (quello che ora viviamo) dalle poesia che dopo Auschwitz sono state effettivamente scritte, e lette, e studiate, e imparate a memoria.
Da questo nodo, De Luca si muove percorrendo il lungo percorso poetico di Fortini e sondandolo con attenzione e puntualità; e quindi restituendoci un angolo interpretativo molto fecondo ei testi di una delle voci più alte della poesia dei decenni appena trascorsi. Potete leggere qui, per esempio, a proposito di splendidi versi fortiniani che De Luca cita nel suo saggio:
Il testo è esplicito: «la guerra finì da tanti anni». Il presente è la foce di immani catastrofi; le trincee sono ancora visibili, prima che l’azione della natura ne disperda i segni e con essi il ricordo. È possibile allora vedere nella presentificazione della seconda scena («Siamo venuti di notte / tra i corpi degli ammazzati»), da un lato l’idea che le svolte del destino si presentano sotto forma di catastrofe, dall’altro che solo il vivo ricordo di quelle catastrofi può disvelare la posta in gioco degli scontri del presente.
E poi potete scendere fino alla fine del saggio, per arrivare alla sua potente conclusione, così fortiniana da meritare un respiro profondo e una seconda rilettura:
Se il passato, come la collina di San Siro, in qualche modo è sempre nel nostro presente, anche quando celato, il vero discrimine per Fortini credo sia il futuro. E questo ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui. L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro sia in continuità con il pre-catastrofe […] Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo?
Mi auguro che post, per quanto impegnativo, vi piaccia. Ma se così non fosse, non posso che ricordarmi della promessa che ho fatto a voi, all’inizio di questa pagina, e a me stesso, all’inizio di questo anno dantesco.
Mi sono detto che mi sarei sforzato, nel grande mare non sempre gradevole delle pubblicazioni dedicate a Dante nell’anno della celebrazione dei settecento anni dalla sua morte, di segnalare quelle che (secondo me) potevano valere davvero la fatica di una lettura, piacevole o istruttiva che fosse. Ho già segnalato, nel corso di questi mesi, alcuni libri che mi sono sembrati interessanti. Oggi ne ho un altro, che penso vi divertirà (e ci insegnerà anche qualcosa di non irrilevante).
Lo ha scritto Luca Carlo Rossi e costruisce un ritratto del «padre» Dante a partire dagli aneddoti più curiosi che si sono accumulati sulla sua misteriosa persona nel corso dei secoli. Un ritratto molto efficace e originale proprio perché procede per sottrazione, rovistando nel gossip letterario dei secoli, nei pettegolezzi, nelle curiosità che però avranno ben avuto qualche radice di verità… E finisce per essere un piccolo mosaico molto più autentico di tante pomposissime messe in scena, quelle del Dante eroico e fondatore di qualunque cosa e attuale in qualsiasi forma possibile, dal femminismo all’ambientalismo (ahimè).
Trovate questo bel libro presentato qui, da Dario Ronzoni. E scommetto vi verrà voglia di leggerlo. Ecco, per esempio:
A volte ancora servono [gli aneddoti] a farlo scendere dal piedistallo, ad esempio – come fa Boccaccio – ricordando la passione, molto carnale, che Dante aveva per le donne. Benvenuto da Imola, addirittura, insinua che negli anni bolognesi (come del resto facevano i suoi studenti) il poeta avesse frequentato prostitute. Per lui era una pulsione irresistibile, soprattutto «per la voluttuosa terra fiorentina, talvolta ingannando donne» […] Gli aneddoti danteschi sono tutto questo. Ognuno di loro impasta stereotipi a qualche lontana verità, spesso più che altro desunta dall’opera poetica. Il personaggio, ridotto a poco più di una maschera, si muove a suon di battute e facezie, obbedendo al dispositivo narrativo e staccandosi da qualsiasi contesto storico reale.