su un gommone, attaccati a un corrimano
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con il casco in testa

Ho deciso: parlo solo di poesia, stamattina. Intanto perché la poesia è bellissima e merita che si parli sempre di lei, punto. Poi perché ne ho lette alcune proprio speciali, stamattina. E poi perché nessuno ne parla più ed è giusto che me ne incarichi io, che non conto niente, punto. E infine perché ho la tentazione brutta di parlare di scuola e so bene (l’ho imparato benissimo) che non devo parlare di scuola mai più.

 

Dunque la poesia, eccola. Nelle parole di Robert Graves (che io nemmeno conoscevo come poeta), il quale sa dirne cose davvero belle, senza timore di sembrare strano o «fuoridalmondo», con il coraggio di chi sente di avere una piccola verità da mostrare agli altri. Le parole di Graves, queste qui:

 

Privo come sono della coda, ossia del contatto con la civiltà urbana, tutto ciò che scrivo deve suonare assurdo e irrilevante a quelli che tra voi che sono ancora legati agli ingranaggi della macchina industriale, sia direttamente come operai, dirigenti, commercianti o pubblicitari, sia indirettamente come funzionari, editori, giornalisti, insegnanti o dipendenti di una rete radiofonica… Avete scelto il vostro lavoro perché vi permetteva un’entrata costante e il tempo libero necessario per rendere un prezioso culto a metà tempo alla Dea che adorato. Vi domanderete a che titolo io vi avverta che essa vuole essere servita a tempo pieno o non essere servita affatto…

 

Ma anche, dallo stesso articolo, le parole su Graves (scritte da non so chi, non c’è nemmeno la firma, giusto così):

 

La poesia, che è la quintessenza della vita, non ammette patti con la ‘società’. Il poeta è inchiodato totalmente al suo compito: se ne fotte del sopravvivere, perché lui vive, in piena intensità linguistica… la poesia chiede tutto al poeta, chiede il sacrificio supremo. Abolire una vita ‘normale’, normata, per penetrare l’eccedente e verificare la rinuncia. Ma questa è una scelta da… monaci. Appunto. Per avere uno sguardo lucido sull’uomo e sul mondo bisogna uscire dal mondo. Senza bisogno del deserto bianco – che ci incenerirebbe – basta passeggiare per il mondo da ‘usciti dal mondo’.

 

Ma non solo Graves, davvero. È bellissimo, infatti, poter parlare di William Butler Yeats, oggi. E poterlo fare grazie a nuove traduzioni dei suoi versi, completate dalla penna di un raffinato scrittore come Roberto Mussapi, non posso davvero chiedere di meglio. «Il mondo è oscurato dal razionalismo», dice Mussapi parlando di Yeats. Ed è solo con questa citazione che vi lascio, e con il link grazie a cui troverete i versi della poesia (splendida) che mi ha aperto il cuore stamattina, mentre sapevo benissimo che di tutto volevo parlarvi tranne che di scuola.

 

E quindi un altro poeta, per resistere. Ed è Andrea Zanzotto, che amai e conobbi, e ascoltai recitare versi formidabili e incomprensibili, con cui ebbi addirittura una conversazione telefonica, una sera lontana un abisso, decine di anni fa, avevo ancora i capelli e lui era gentile, anche se si accorse che non capivo. E questa sua poesia che nega tutto, pure il diritto di negare, e quindi riafferma tutto, con la forza dell’irrazionale, l’ho trovata qui:

 

Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l’ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s’affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza
 
E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

Così avrei finito anche per oggi. Ma una sola cosa voglio aggiungere. Voglio rapidamente dire che non si comincia con un casco in testa a minacciare e umiliare un insegnante. Si comincia con i cavilli, invece, con i ritardi di pochi minuti, con la sigaretta fumata dietro l’angolo dove non si potrebbe, con il 6 dato per accondiscendenza, con i dettagli, con i «son ragazzi». L’ho trovato scritto qui, in queste poche righe:

 

«Si è attaccata a un cavillo, prof.  Ho fumato in classe ma intanto è una sigaretta elettronica, e poi non è la sua ora, questa. Lei è entrata, mi ha visto, ma veramente: ma perché si attacca in questo modo a ’sta cosa? Un cavillo. Davvero un cavillo.»

 

Ed è soltanto dopo che si arriva al casco in testa e alle minacce e alle umiliazioni. Ma prima, prima di quello sono tutti bravi ragazzi. Arrivano con un paio di minuti di ritardo, che sarà mai; non giustificano l’assenza del giorno prima, che sarà mai; fumano dove non si potrebbe e parcheggiano il motorino dove non si dovrebbe, che sarà mai, sono dettagli. E sui dettagli, nessuno è disposto a educare nessuno. Gli insegnanti lasciano correre, i dirigenti lasciano correre, i genitori lasciano correre. E se qualcuno non lascia correre, siamo tutti pronti (noi, che poi chiediamo la punizione esemplare, i lavori forzati, gli schiaffoni ben dati come si davano una volta, ma sempre dati ai figli degli altri però…), siamo tutti pronti a difendere chi, poverino, ha solo fumato una sigaretta elettronica, che sarà mai, è il professore che esagera, vecchio pelato rompicoglioni. Non si comincia con il casco in testa, davvero.

Davide Profumo
Davide Profumo
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