piccola storia esemplare
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La preghiera del Padre nostro in latino recita verso la fine “et ne nos inducas in tentationem” (continuando con “sed libera nos a malo”, dove ricordo che non si parla della mela di Adamo ma del male). Considerando il ruolo centrale della preghiera nel cristianesimo, non v’è dubbio che ci sono stati millenni di dubbi su una frase che in italiano era stata resa con “e non indurci in tentazione”. Come? Dio che è così buono si diverte a farci tentare?
Ed è uno spunto da cui potete partire e passare forse alcune delle più interessanti ore della vostra settimana. Perché il Padre nostro lo conosciamo tutti, cattolici e non cattolici, credenti e miscredenti, perché è la nostra preghiera; e pertanto quelle parole hanno comunque per molti anni risuonato nelle nostre teste, la «parola del Signore», e forse sarà difficile pensare oggi che erano, guarda un po’, parole sbagliate. Ma il post di Maurizio non è solo il suo post (come succede sul web, quando il web dà il meglio di se stesso). Potete seguire il suo link e giungere alle considerazioni di Sandro Magister, che vi racconterà di un dibattito acceso e sorprendente:
La nuova traduzione che Bovati [Pietro Bovati, un importante biblista] propone e argomenta con forza è: “E non metterci alla prova”. A sostegno di questa traduzione egli spiega che la parola “prova” è molto più fedele che non “tentazione” al termine originale greco “peirasmos”. Questo perché nel Nuovo Testamento il “tentare” ha il significato malevolo di voler far cadere mediante la seduzione o l’inganno, ed è quindi l’opposto di ciò che Dio fa, mentre la “prova” o il mettere alla prova è nell’intera Bibbia ciò che Dio fa con l’uomo, in vari momenti e modi talora insondabili, ed è ciò che Gesù ha sperimentato al sommo grado nell’orto degli Ulivi prima della passione, quando pregò con le parole: “Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!”.
Ma potete anche scendere fino ai commenti del post di .mau. e trovare altre riflessioni, ancora più interessanti, e altri link, che vi porteranno lontano e forse vi indurranno (ehm) a credere che la parola di Dio sia mutevole, si trasformi nel tempo, senza che questo però ne determini un cambiamento nel suo significato ultimo, a cui l’essere umano si sforza anno dopo anno di attingere, con altre parole che nel frattempo i decenni hanno di nuovo cambiato e trasformato, un un processo di approssimazione che pare infinito e labirintico e insensato…
E per esempio potrete anche arrivare qui, a questo articolo di Giovanni Scalese (ma ci sono molti altri link, non trascurateli) che forse dice proprio che non c’è possibilità di aderire a una parola lontana, pronunciata in una lingua diversa, che dobbiamo accontentarci e affidarci all’interpretazione, che muta anch’essa, mutando il tempo dell’interprete:
…non c’è un consenso unanime sul modo di rendere nelle lingue volgari il Ne nos inducas in tentationem. Semplificare troppo, facendo credere che si possa facilmente sostituire la versione tradizionale con una nuova che renderebbe adeguatamente il senso inteso da Gesú, significa non solo illudersi, ma anche ingannare i fedeli: non appena decisa una nuova traduzione, ci sarebbe qualche esegeta che si direbbe insoddisfatto e proporrebbe una nuova traduzione a suo parere piú fedele. Credo che tutta questa storia si basi su un equivoco di fondo, oggi molto diffuso: pensare che “tradurre” sia sinonimo di “interpretare”, mentre si tratta di due azioni complementari, ma distinte. “Tradurre” significa rendere un testo il piú fedelmente possibile in un’altra lingua. Non possiamo affidare alla traduzione un compito che non le compete. L’interpretazione di un testo spetta agli esegeti, non ai traduttori.
Ma ecco, insomma, due cose mi paiono emergere con evidenza, anche da questa mia inutile pagina. La prima è che il web continua a essere un mare splendidamente navigabile: basta seguire le scie giuste e avere il coraggio di allontanarsi dalle rotte consuete e si aprono mondi, e linguaggi, e orizzonti che forse, al riparo nella nostra bolla sociale, non sospettavamo più, per nostra pigrizia. La seconda è che la parola (anche quella che attribuiamo, con esitazione, al Signore, se siamo credenti – come io non sono, mi pare onesto dirlo) resta comunque uno strumento umano, quindi imperfetto, quindi passibile di continui aggiustamenti, in un percorso di approssimazione ininterrotto e davvero destinato al fallimento… Perché gli esseri umani, come i loro linguaggi, sono fallibili e mortali. E almeno su questo possiamo, credenti e non credenti, convenire.
6 Comments
per rendere le cose ancora più complicate, almeno a mia conoscenza la Parola divina nel Corano è immutabile, tanto che l’arabo classico è rimasto fondamentalmente immutato in 1400 anni (e l’arabo moderno standard è quasi identico, a differenza dell'”arabo” parlato nelle varie nazioni che può non essere mutualmente comprensibile. In quel caso la parola umana, proprio perché imperfetta non potrà mai essere quella divina.
Sapevo dell’arabo coranico e della sua differenza con l’arabo parlato nelle varie regioni linguistiche; però non avevo mai riflettuto su questa implicazione relativa all’imperfezione delle lingue umane. Ma l’idea dantesca di lingua (almeno quella espressa nel libro i del De vulgari eloquentia) non è molto diversa da quella araba.
però Dante afferma poi che la “grammatica”, pur essendo appunto immutabile, può tranquillamente essere sostituito dal volgare che ha una sua forza innata, anche se ha mai affermato che sia possibile fare una traduzione tra latino e volgare; e questo è ben noto a chiunque abbia dovuto fare traduzioni più complesse di “the cat is on the table”. La traduzione è una lotta per riuscire a essere sconfitti solo di misura.
Oppure volevi parlare della tradizione durata molto a lungo secondo cui la lingua divina era l’ebraico?
Intendevo proprio la “grammatica”, nella sua intrinseca immutabilità. Mi aveva colpito questa labile analogia, diciamo.
(all’anima delle sgrammaticature, non dovrei scrivere la domenica sera. Spero che il mio concetto fosse ad ogni modo chiaro)
(lo era, lo era… 😉 )