«E quindi i troiani entrarono il cavallo in città…»
Due anni fa, appena arrivato in Sicilia per insegnare italiano e latino a giovani (e ignari) ragazzi del ragusano, mi trovai di fronte a una verifica di latino in cui un mio alunno aveva così tradotto il testo latino. Era una traduzione giusta e contemporaneamente sbagliata. Soprattutto era una traduzione molto divertente. La feci vedere a mia moglie, anche lei rise. Poi mi chiesi se dovessi considerarla o no un errore e decisi che no, non l’avrei segnata né in rosso né in blu (io non segno niente in blu, a dire il vero… volevo solo compiacere un po’ i vostri ricordi di scuola, scusatemi). Semplicemente dissi al ragazzo (che è ancora un mio alunno e che spero non stia leggendo) che l’italiano formale non prevede l’uso transitivo di «entrare, uscire, salire, scendere» e che quindi era meglio non usarlo nei temi e nelle traduzioni. Lui infatti non lo usò più. Anche se, nei giorni successivi, molti di quegli studenti tornarono a scuola riportandomi lo stupore dei familiari (soprattutto dei loro nonni) di fronte alla notizia: non credevano che davvero «entrare, uscire, salire, scendere» non fossero transitivi; «sarà il professore del Nord che si sbaglia», disse qualcuno.
[Pochi mesi fa mi è successo di nuovo, in una quarta: Ho dovuto spiegare che «Aspettiamo al professore» non è costruzione accettabile. Mi hanno guardato, ormai abituati alla nordicità dell’insegnante, un po’ spazientiti, pensando «Mariiia, quanto è camurrioso chistu». E forse avevano pure ragione, sono camurrioso, che peccato.]
Anche per codeste personalissime ragioni, ma non solo, ho trovato curioso e interessante (e un poco sintomatico, se mi si permette) il dibattito seguito alla cattiva comprensione di un articolo della Crusca sulla transitività di tali verbi, «entrare, uscire, salire, scendere» (e «sedere», ancora prima). E mi pare che tutta la questione sia stata ben sintetizzata e commentata da Licia Corbolante, che con la consueta eleganza ci ha spiegato sia cos’ha detto in effetti la Crusca, sia cos’hanno capito i lettori della Crusca, sia il possibile uso di tali verbi, i quali nel frattempo sono rimasti ostinatamente muti. Potete leggere qui, per esempio:
Andrebbe sempre ricordato che lo studio della grammatica non prescrive regole astratte ma descrive la lingua contemporanea nella sua variabilità e nei suoi fenomeni di ristrutturazione e ristandardizzazione. È quanto fanno anche gli studiosi dell’Accademia della Crusca, che quindi non sono guardiani a difesa della purezza dell’italiano contro gli imbarbarimenti come invece si aspetta chi li critica sui social.
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Ma visto che mi sono impelagato in temi riguardanti in qualche modo la scuola, vorrei pure dirvi che si sta consumando (o si è già consumato o si consumerà tra breve) in questi giorni il «rito» della Giornata della Memoria, con stanca ostinazione, anche lui come l’intransitività di certi verbi. E volevo segnalarvi che c’è qualche insegnante che comincia a nutrire qualche perplessità, su questo «rito». E che forse si potrebbe pensare, almeno a livello di istruzione superiore, anche a qualcosa di meno retorico, di più complesso, qualcosa che investa le letteratura, magari. Leggete qui, per esempio: e ditemi se non vi pare un bellissimo modo di raccontare le parole con cui è stato possibile (o impossibile) raccontare il Male.
Salta agli occhi l’enorme difficoltà che i testimoni hanno nell’esprimere l’inesprimibile: la frase che usano di più è «non ci sono parole per dirlo». Quando però arrivano a dare un nome e un volto a ciò che hanno visto e subìto, viene loro spontaneo, quasi in virtù di un automatismo, ricorrere all’immaginario infernale dantesco, indipendentemente dal loro livello di istruzione: si attinge a Dante come a un patrimonio linguistico collettivo, senza ambizioni letterarie, spinti dall’urgenza di trovare un codice, le parole, appunto. Bolge, diavoli, demoni, l’oltretomba, gironi infernali, l’eterno dolore e la perduta gente, malebolge, voci alte e fioche, pianti e alti guai, girone e, quando parlano del momento della liberazione, essere tornati a riveder le stelle.
Ma, se chiedete a me, io ho una sola proposta, da molti anni. È la prima delle fotografie che trovate qui: sono i cattivi, i mostri, gli esseri abietti, diabolici, malvagi. Ridono felici. Sanno di essere dalla parte della ragione, sono certi delle loro buone ragioni, gliele hanno spiegate, forse soltanto urlate, ci sono cresciuti dentro. Non sospettano di nulla. Io credo che è da questa foto (da questo spaventoso ritratto dell’inconsapevolezza del male e del male dell’inconsapevolezza) che si debba ripartire, se davvero abbiamo la voglia oggi di ricordare chi erano e chi siamo.