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come Ettore a Troia

[Che cos’è l’epica, chiedo ogni tanto nelle aule delle prime liceo che mi sono state affidate. Che cos’è l’epica, ripeto a classi di alunni che hanno studiato tutta la bella introduzione che c’è sull’antologia del biennio, e risposto a tutte le domandine di comprensione del testo e verifica delle competenze e simili vani arredi scolastici, eppure non sanno ancora rispondere all’unica domanda cui valga davvero la pena di rispondere… Che cos’è, che cosa siamo, che cos’è la cosa di cui vogliamo parlare. E poi, piano piano, grazie anche all’inutile pagina della loro antologia che parlava di chissà cosa ma nel frattempo se ne faceva sfuggire qualcun’altra, più sensata, riusciamo insieme a ricostruire la risposta: e quindi gli eroi, le storie, la narrazione orale, le sconfitte e le vittorie, le battaglie, la polvere dei campi, le donne sullo sfondo che aspettano, la casa lontana, il Fato, crudele e beffardo, la giustizia, l’ingiustizia… L’ora finisce, i ragazzi escono da scuola, io spero che abbiano capito qualcosa, raccolgo le mie poche cose, e mentre varco la soglia dell’aula (si dice così, no? Si «varca la soglia», giusto?), ecco, mi faccio anch’io, da solo e senza testimoni, scomodi come sono scomodi gli adolescenti, la medesima domanda: «Che cos’è l’epica?». E di nascosto dalle autrici dell’antologia che la sanno ben più lunga e mi sgriderebbero se lo sapessero, mi do l’unica risposta che so essere giusta: «L’epica, dio mio, è il ciclismo».]

Se mi chiedete perché io ami il ciclismo vi rispondo con una frase che ho imparato che funziona sempre: «Perché il ciclismo è il più letterario degli sport, perché il ciclismo è narrazione prima che gesto atletico, ed è memoria prima che potenza fisica». Ed è una risposta assolutamente vera. Ma se siamo in confidenza e magari mi avete fatto anche bere un bicchiere di rosso, uno di quelli della Valtellina, tersi e intensi, acuti come certe salite che salgono verso il cielo di Lombardia, così bello quando è bello eccetera, ecco, allora vi darò un’altra risposta, ancora più vera: «Non lo so».

Ma lo amo lo stesso. E sono quindi felice ogni volta che trovo il ciclismo raccontato bene, sui libri o sul web, come oggi, E penso che se c’è letteratura che ci racconta, autobiografia della nazione, auto-geografia dell’Italia interna ignota e sperduta, ecco, questa è proprio il ciclismo, che è il racconto del ciclismo. Quello che trovate scritto oggi da Paolo Bozzuto, per esempio, in una specie di introduzione leopardiana al Giro d’Italia:

Il Giro d’Italia è un sabato del villaggio, leopardiano, lungo tre settimane. È una prospettiva, un’aspirazione: qualcosa verso cui tendere. Il Giro è la promessa di un Paese migliore. Che da sempre stenta a realizzarsi, ma che nel mese di maggio, edizione dopo edizione, dal 1909 a oggi, almeno ci appare possibile. Il Giro d’Italia è l’unica vera forma di nazional-popolare che ci resta; forse, l’unica che mai abbiamo avuto nell’accezione più elevata del termine. Per tre settimane, il Giro riduce le distanze tra “alto” e “basso”, dal punto di vista culturale; ricuce parzialmente le fratture tra Nord e Sud; stempera le frizioni tra schieramenti politici contrapposti. Il Giro siamo noi o, per meglio dire, il Giro è ciò che noi dovremmo ambire a essere, nel rispetto delle reciproche differenze.

Ma anche, ancora più letterariamente, ciò che racconta Gino Cervi a proposito di Fiorenzo Magni, della sua ultima cronometro al Giro, di quel tubolare stretto tra i denti e di una storia che è anche la storia del nostro dopoguerra, forse mai ricomposto, forse mai raccontato meglio che dalle storie del ciclismo:

Tre giorni prima, il 29 maggio, Fiorenzo è caduto in discesa, a Volterra, nella Grosseto-Livorno. Si è rialzato e ha portato a termine, ma all’arrivo i medici gli riscontrano la frattura composta della clavicola. Gli consigliano di abbandonare. Ma Fiorenzo è testardo: vuole continuare. Quello è il suo nono giro: ne ha vinti tre e gli altri cinque li ha portati a termine tutti entro i primi dieci. Di mollare non ci pensa neppure. Il giorno dopo c’è una cronometro, 45 km da Livorno a Lucca, e lui ci vuole provare: si fa mette della gommapiuma sul manubrio, per attenuare le vibrazioni e parte. Meglio di quanto pensasse. Decide di andare avanti, ma il sabato, quando a Bologna la mattina prova il percorso della salita del San Luca, le pendenze della curva delle Orfanelle gli fanno vedere le stelle. A ogni strappo di braccia sul manubrio, sono fitte di dolore. Faliero, il Sarto, s’inventa allora l’escamotage. Lega un tubolare sgonfio al manubrio. L’altra estremità finisce tra i denti di Fiorenzo che userà così i muscoli del collo per aggrapparsi al manubrio in salita. Magni parte con una specie di briglia in bocca per tenere a bada il suo ferreo destriero. Una scena da fachiro. Magni ha trentacinque anni, una pelata da sessanta e, al centro del volto deformato dallo sforzo, un naso schiacciato come una scarpa, segno di una caduta di quasi vent’anni prima.

Ed è l’epica, questa; ed è il Giro d’Italia. Che è iniziato ieri, infatti, che sarà il racconto di un altro maggio della nostra vita. E come tutti gli anni, da qualche tempo a questa parte, io aspetto l’inizio del Giro e ripenso a una pagina sullo sport che ha scritto il mio amico (mi vanto di chiamarlo così…) Giovanni Fontana, qualche anno fa , dopo che Vincenzo Nibali vinse il Tour de France; una pagina tra le più belle che abbia mai letto sul ciclismo e sullo sport in generale; una pagina che ne cita un’altra, di un altro amico (mi vanto di queste cose, ripetutamente), bellissima anch’essa, ve la consiglio anch’essa; una pagina che mi fa piacere proporvi stamattina, da leggere tutta, bellissima, sapendo che Nibali è uno dei favoriti per la vittoria del Giro, anche quest’anno, speriamo bene, e che all’inizio dice, questa pagina di Giovanni Fontana, così:

Chi si mette per la prima volta a guardare una tappa non capisce niente, non può capire niente. È per questo che c’è bisogno di maestri che si mettano lì accanto a te e ti spieghino, passo passo, quanto conta la squadra, quali sono le caratteristiche che distinguono i corridori (ma non c’è solo “pedalare”? No, ce ne sono almeno una dozzina), quali sono le strategie di corsa, perché una pedalata è diversa dall’altra. È un’operazione lenta, e non è per tutti. In questa difficoltà di apprendimento è fondata la più banale delle dicotomie: quella per cui il ciclismo o-si-ama-o-si-odia. C’è un muro, e chi non lo supera vede solamente lo sport più noioso che c’è. Gli altri, quelli al di là del muro, pensano di aver capito qualcosa della vita che gli altri non hanno capito, e dicono cose come che il ciclismo è lo sport più romantico del mondo (il ciclismo è lo sport più romantico del mondo). È una nicchia, non tanto numericamente – il Tour de France è l’evento sportivo annuale più seguito al mondo – ma come convinzione di essere speciali e incompresi. Ed è una congrega con un codice, regole non scritte che tutti gli appassionati conoscono e rispettano: si fa sempre il tifo per il fuggitivo, per esempio, l’outsider che sfida una fatica quasi sempre inutile.

Come Ettore sotto le mura di Troia, che sa di andare incontro alla sconfitta, volevo dire.

Davide Profumo
Davide Profumo
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