Mi pare di poterlo dire con sicurezza: di rado, molto di rado, capita che uno scrittore da poco scomparso lasci dietro di sé una scia di parole e di riletture come quella che sta lasciando nei nostri giorni autunnali la morte recente di Daniele Del Giudice. Il che è ancora più significativo, se pensiamo che si tratta di una morte che è giunta dopo un lunghissimo silenzio letterario, dopo una interminabile malattia: e che si tratta dunque di libri scritti più di venti anni fa. Ma che, imperterriti, continuano a parlarci e, con tutta evidenza, a interrogarci.
Lo dico quindi con serena sicurezza: siamo di fronte a un classico, siamo di fronte a uno degli scrittori di cui potremo dire, un giorno (non potremo in realtà, perché non ci saremo più nemmeno noi: ma sappiamo che qualcuno lo dirà al posto nostro) che hanno saputo raccontare la nostra epoca meglio degli altri, più limpidamente e verticalmente di tutti gli altri.
Ho letto per esempio in questi giorni due interessanti recensioni (o insomma: interpretazioni, riletture) del primo libro che Del Giudice pubblicò, quasi quaranta anni fa. Era un mondo diverso, credo non sfugga a nessuno di noi. Era un mondo così diverso, senza tecnologia né rapidità, senza nulla di quello che è oggi il nostro mondo, che è faticoso anche considerarlo contemporaneo. Eppure, leggendo le interpretazioni del libro di Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon, si ha la sensazione che sia un libro che ci parla oggi del nostro oggi, talmente contemporaneo da prendere il nostro oggi e trasformarlo in sempre. Insomma un «classico», esattamente.
Ho trovato molto acuta la rilettura di Giacomo Ferrara, che si legge qui. La quale ricostruisce il cammino del romanzo di Del Giudice ma anche il suo finale, e forse anche il nostro modo di capire o non capire quel misterioso finale. E che prende spunto da questa ipotesi interpretativa di partenza:
Formuliamo un’ipotesi di partenza: il protagonista di questo romanzo, narrato in una prima persona che rifugge praticamente ogni informazione su se stessa, coincide in qualche modo con l’autore di cui leggiamo il nome in copertina. La nostra ipotesi ci appare per lo meno sensata: i due hanno la stessa età, e sono accomunati da una conoscenza di aeroplani, e mezzi di trasporto in genere, decisamente fuori dal comune. Se leggiamo il romanzo assumendo quest’ipotesi, e vi aggiungiamo l’informazione che possiamo leggere sul dorso di copertina, ossia che questo è in effetti il primo romanzo dell’autore Daniele Del Giudice, allora forse già sappiamo cosa aspettarci da questa storia, pur avendone letto solo poche pagine. La storia di un giovane uomo che si sta chiedendo se è il caso di cominciare a scrivere e pubblicare.
Ma è molto bello, pur se meno analitico, anche l’articolo di Roberto Ferrucci (qui, sul suo blog personale) che racconta di un viaggio in treno insieme e a quel primo indimenticabile romanzo, una specie di ritorno del libro nel luogo da cui era partito, quando Del Giudice aveva cominciato a scriverlo. E Ferrucci ce lo descrive nitidamente così:
“Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz’ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo”. Inizia così il romanzo, che per la mia generazione – la successiva alla sua – è stato uno scossone, una possibilità, un’apertura verso la tanto temuta pagina bianca, un manuale dei sentimenti, che indicava come ci fossero modi nuovi per poterli raccontare. È stata la voce, la cifra di Daniele Del Giudice a sorprendere noi lettori quando Lo stadio di Wimbledon arrivò in libreria, confermata un paio di anni dopo da Atlante occidentale. È questa sua voce, che risuona a ogni riga, a rendere fondamentali i suoi libri.
E in tutti e due gli scritti mi pare di aver notato, con un sussulto inatteso del cuore, la stessa mirabile caratteristica: tracce evidenti della scrittura di Del Giudice, una strana eredità di quel suo non imitabile nitore, trasferita tra le righe dei suoi interpreti.
Ecco, è così: ogni volta che si parla di lui (sapendone parlare, è ovvio) è come se la scrittura di Del Giudice trasferisse qualcosa di se stessa (della parte migliore di se stessa) nelle parole di chi sta cercando di capirla. Ogni volta è come se rinascesse un po’. Ogni volta è una piccola prodigiosa resurrezione.
Forse è di questa magia che stiamo da settimane continuando, un po’ stupiti, a parlare.