qui le persone sono così felici
21 Giugno 2018la propria strada
29 Giugno 2018Occorrono davvero pochi minuti per leggere il post che mi preme segnalarvi oggi. Ma sono pochi minuti quasi entusiasmanti, secondo me. Perché c’è un articolo di una brava traduttrice, oggi sul web (lei si chiama Susanna Basso e quando arriverete alla fine del post scoprirete che senz’altro avete letto, nella vostra vita di lettori, parole sue, che però pensavate essere di altri…), ed è un articolo che dice benissimo, anche parlando di altro (e cioè per lo più dei romanzi di Kazuo Ishiguro), che cosa siano la scrittura e la letteratura.
Susanna Basso ci racconta alcuni momenti del suo mestiere di traduttrice (è un mestiere che conosco bene, peraltro, ve lo confesso: nell’altra stanza, al di là di una sottile parete su cui appoggia uno strato di libri, la persona con cui divido la vita sta traducendo un romanzo, in questo stesso istante), ma lo fa con una precisione così affilata che a me pare che le sue considerazioni possano valere ben al di là della lingua inglese dei romanzi di cui la Basso sta parlando. Per esempio in questo passaggio:
A Ishiguro interessa la fatica commovente che facciamo per rendere dignitosa la nostra viltà assai più della rara incursione nel territorio del coraggio. Gli interessa quanto siamo disposti a sopportare senza progettare l’evasione. Gli interessa il lato eroico del nostro sforzo di attribuire dignità perfino alla vergogna. Come ha sostenuto durante un’ intervista, la forza della vita ci solleva e ci sposta, come un vento, e quando il vento cala e ci precipita a terra, noi ci affanniamo a sostenere di aver voluto svolazzare e di volere adesso invece riposare. Ci affanniamo insomma ad ammantare di libero arbitrio l’arbitrarietà della vita. Questo è commovente. E torniamo a farlo più volte nella stessa vita.
Ma soprattutto, poco più avanti, c’è questo altro momento che lascia perfettamente intuire cosa implichi il mestiere di prendere una parola in una lingua e farla diventare un’altra parola in un’altra lingua cercando però di fare in modo che restino la stessa parola nella lingua della letteratura.
È difficile farla a un traduttore. Voglio dire che sei lì, chino sulle parole, una a una e non puoi distrarti anche quando ti distrai, devi decidere, decidere, decidere centinaia, migliaia di volte al giorno. Tengo, lascio, alzo, abbasso, allungo, accorcio, giro, ripeto, sinonimizzo, enfatizzo, sottintendo, modifico, lascio in originale, glosso, invento… cedo.
Ecco, è quel verbo finale che mi è piaciuto più di tutto: cedere. Davanti alla letteratura, se è grande letteratura, noi cediamo. Forse ci pare di emozionarci, di capirci qualcosa, di commuoverci o di annoiarci… Ma in verità, prima di tutto e sopra ogni altra cosa, cediamo. Alle parole dell’altro, al suo racconto della realtà, al suo sguardo sul mondo che è per forza un po’ diverso dal nostro. Cediamo, lo chiamiamo leggere ma è anche un atto di grande umiltà. Che è una delle più belle forme dell’intelligenza. Siamo tutti traduttori, mi verrebbe da dire, perché traduciamo le parole altri nel nostro modo di sentirle e pronunciarle; siamo l’amico babbeo e pusillanime di Amleto, vorrei aggiungere ancora (e capite bene il perché, se avete letto tutto il post). Ma non voglio esagerare, e mi fermo qui, che è già davvero molto.