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cavalli che volano

Io non so cosa sia una storia vera. Quando leggo, nei titoli di testa o di coda di un qualsiasi film, «tratto da una storia vera», mi insospettisco subito, il film mi sta già un po’ antipatico e, se è appena finito e mi è piaciuto molto, mi piace immediatamente un po’ di meno. Perché io non so cosa sia davvero una storia vera; perché io so che appena la racconto, la mia storia vera, nel momento stesso in cui il fiato delle parole mi esce dalla bocca, la mia storia non è già più vera, che bastano le parole a fingerla, intorbidarla, confonderla, mistificarla, piegarla alle mie misere ambizioni di piccolo narratore vanitoso. Io non so cosa sia una storia vera e ho sempre avuto una predilezione per le storie finte, le favole, i poemi, i grilli che parlano, i cavalli che volano, i mulini a vento che combattono.

Ma la verità e la finzione non sono così semplici. Ed è (anche) per questo che ho letto e seguito con grande interesse i libri di Marco Santagata, in questi anni, sempre imparando e sempre scoprendo quanto ancora dovevo imparare. Lo spiega bene, in questi giorni in cui ci ricordiamo tutti di Marco Santagata, perché è improvvisamente scomparso, Daniele Lo Vetere, in un bell’articolo in cui presenta il libro Il poeta innamorato e pone una questione (su Beatrice, su Laura, su tutti i poeti del medioevo e le loro donne amate) che ogni insegnante si è sentito porre, più di una volta, dai suoi studenti: sono vere, queste donne? le amavano davvero, quei poeti? Marco Santagata provava a dare delle risposte a queste difficili domande. Lo fece in un romanzo tutto costruito su un solo sonetto petrarchesco (L’amore in sé), che a me piacque ancora di più di quello presentato da Lo Vetere. Il quale, nel suo post (che trovate qui), scrive così:

“Realtà” e “finzione” sono tra i concetti più instabili di tutta la nostra cultura. Dal dibattito sul realismo non usciremo probabilmente mai. Se solo i lettori molto ingenui pensano che la letteratura sia un immediato rispecchiamento di eventi biografici, è pur vero che alla letteratura noi chiediamo soprattutto di parlare della realtà, ovvero di noi.

Parlare di noi, appunto. Come, da molti secoli, fa un altro personaggio che la letteratura e i suoi lettori non hanno mai smesso di amare: don Chisciotte della Mancia. Oggi trovate (qui) un bell’articolo di Niccolò Amelii che parla di due nuovi libri ispirati in qualche modo al cavaliere dalla trista figura e, così facendo, ne riassume brevemente la storia libresca, da Cervantes fino a Borges, raccontandoci di un personaggio che ha vissuto sempre al confine tra la realtà e la finzione, magari confondendole, spesso confondendoci, sicuramente ballando elegante e imperterrito sul filo sottile della distinzione tra ciò che viviamo, ciò che leggiamo, ciò che raccontiamo di avere letto e vissuto. Così, per esempio:

Il condottiero cervantesco, che sublima la superficie degli oggetti e delle persone con i suoi incontrollabili miraggi romanzeschi, è preso dalla furia di rinominare i fenomeni, di reinventarli e farli propri assecondando i ritmi di una immaginifica e bizzarra inventiva, frutto di un sogno quanto mai lucido e proteso al rovesciamento dell’essenza intrinseca delle cose, al fine di strapparle dalla loro gabbia prosastica e tutta terrena. Eppure, i referenti reali hanno smesso di corrispondere ai nomi con cui i libri li designano, essi sono ora copia sbadita o contraffatta; le parole sono dunque costrette a vagare insoddisfatte – così come il loro apparentemente asincrono portatore –, e a restare segno, inchiostro mutilo, votato alla perdizione.

E quindi, il ballare. Oggi ho infine scoperto, grazie a un’intervista di Giulia Cavaliere che racconta meravigliosamente un disco meraviglioso che compie quarant’anni (trovate tutto qui), che una canzone che ho ascoltato centinaia, migliaia di volte, Balla balla ballerino di Lucio Dalla, trasfigurava in versi una storia vera, un evento della cronaca tragica del 1980: non lo sapevo, pensavo parlasse di un signore che ballava, lo giuro. E mi sono chiesto come ho fatto ad amare una canzone così tanto senza averla mai capita, senza avere nemmeno vagamente compreso di cosa parlasse davvero (c’entrava l’emigrazione, Palermo-Francoforte, questo sì, lo avevo intuito: ma non ero mai andato oltre…). La risposta è che non lo so, naturalmente. Amavo, lo immagino, quello che nella canzone risuonava di me stesso, del mio essere un ragazzino spaventato, del mio amore e del mio dolore, sotto un cielo di ferro e di gesso, la luce di mille sigarette, il mistero. Che fosse tratto da una storia vera mi importava poco: era la mia storia ad essere vera, ero io che la sentivo battere vera dentro di me.

Continuo pertanto anche adesso, dopo tanti anni, non più ragazzino e pieno di spaventi assai meno ovvii di allora, ad amare i cavalli alati e i cavalieri dalla trista figura. E a riconoscere le laure e le beatrici che passano per la via; e a confondere i mulini a vento con qualcos’altro, naturalmente.

Davide Profumo
Davide Profumo
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