non leggere i classici
29 Novembre 2020analfabetismi
6 Dicembre 2020Ho scoperto solo stamattina (ma forse altri lo hanno saputo ben prima di me) che il presidente Giuseppe Conte contava di lasciare agli italiani la possibilità di tornare, a Natale, nella loro «casa d’infanzia». Mentre lo leggevo, ho pensato si trattasse di un’espressione bellissima: casa d’infanzia. Ho pensato ai miei nonni che, più di settanta anni fa, avevano lasciato da profughi una casa d’infanzia a cui non sono più tornati; ho pensato a me, ho pensato che quasi quasi si trattava di una tautologia: per me la mia infanzia è quella casa, in una città di provincia ligure, con quel balcone che da lontano guarda quel mare, e quella casa (in cui sono cresciuto, da cui ho desiderato con tenacia e ostinazione di andarmene) è esattamente la mia infanzia, in perfetta coincidenza.
E quindi, poiché le coincidenze sanno davvero essere perfette, ho poi letto questo brano, spuntato dal nulla, di un autore che non so chi sia, che non so perché sia stato pubblicato su questo sito web senza una premessa, senza una spiegazione (trovate il brano qui). Parla di case abbandonate, di casa rimpiante, di case perdute o immaginate. Dice cose che riguardano tutti noi, non solo chi è profugo e abbandona per sempre la sua casa; dice che abbiamo una casa che non abbandoniamo mai, nemmeno quando ci pare (come è sempre parso a me) di averla abbandonata per sempre:
I veri nomadi costruiscono la propria casa, prima di lasciarla. Lo stesso fanno gli uccelli, le coppie di amanti e gli operai, che dormono nei cantieri finché hanno costruito una casa che neppure gli appartiene. Solo chi costruisce e lascia una casa, conosce il segreto della non appartenenza – alla storia, ai luoghi stessi –, al contrario di chi costruisce e poi distrugge, o di chi entra in una casa e poi ne esce. Preferisco parlare di un luogo che si lascia anziché di un luogo in cui si vive, perché spesso definiamo la casa con la nostra volatilità o con il modo in cui ne veniamo lasciati, ancora prima di lasciarla noi stessi. Quando l’uccello lascia il proprio nido, vola via. Quando l’uomo lascia la propria casa, inizia a ricordare.
E ho quindi pensato a tutti i profughi della letteratura di cui ho letto in questi anni, a Enea, ma anche a Lucia, che di notte saluta piangendo i suoi monti e il suo lago, a Petrarca senza patria e senza casa da salutare (ma forse, Valchiusa…), a Leopardi che sputando con rabbia saluta Recanati, a Foscolo, le sponde dell’isola, il corpo fanciulletto, le onde del mare, a tutte queste case abbandonate, mai abbandonate, sempre rimaste nelle parole dei poeti, nella memoria di noi che li leggiamo…
E infine ho pensato a un verso, anzi a una strofa. Che forse non è solenne come desideravate, ma che a me ha sempre turbato, anche se credo di non averlo mai del tutto compreso, forse proprio per quello. E forse proprio per quello, ci ho subito pensato: è un verso (anzi una strofa) di Franco Fortini, è l’ultimo verso di una poesia meravigliosa che si intitola Prima lettera da Babilonia, la quale poesia contiene versi assai più belli e solenni e icastici di questo, ma questo è il suo ultimo verso, chiude una specie di cerchio, dice cosa siamo anche se non siamo in esilio, anche se forse siamo da sempre in esilio, dice che siamo tutti la stessa cosa, la stessa casa, dice che siamo «gente», mi consola, mi mette con voi, nello stesso mondo, con la stessa voglia di tornare a casa… E questo è il verso (anzi la strofa):
Siedo la sera sul margine della foresta.
Le bestie selvagge e timide cercano acqua.
Guardo la grande diga che abbiamo costruita,
i lumi della centrale, l’aereo che scende,
la gente come me che ritorna alle case.
Insomma, non tornerò nella mia casa d’infanzia, questo Natale. È la prima volta che mi succede, in trentaquattro anni, da quando me ne sono andato via con la voglia di non tornarci mai più. Forse è giusto: accade per la notte che aprirà l’anno dedicato al più grande di tutti gli esuli, il poeta che rimpianse Firenze, casa della sua infanzia, per sempre, senza tornarci mai. Forse è giusto così; forse sentirci tutti un po’ più esuli, nel 2021, ci aiuterà.